Che cos’è l’Europa? A ogni nuova crisi internazionale, sul vecchio continente torna ad aleggiare questo irrisolto interrogativo esistenziale. Ma aleggia soltanto, sballottato dal vociferare scomposto di una pletora di risposte diverse; come se nessuno lo volesse affrontare veramente, come una strana malattia di cui si straparla per scaramanzia o non si parla affatto, per pudore o per vergogna.

Molto spesso, nel linguaggio politico, si parla di “Europa” intendendo “Unione europea”: una sineddoche che si è già fatta le ossa al di là dell’oceano, dove “America” e “Stati Uniti” sono quasi diventati sinonimi. C’è però una differenza capitale: nel caso del continente americano, a prescindere dalla pretesa degli Stati Uniti di rappresentarlo tutto, i confini fisici sono nitidamente definiti, fissati per sempre da quei due oceani che lo separano per parecchie migliaia di chilometri dal resto della massa terrestre; nel caso del continente europeo, invece, tale netta demarcazione è assente, e fin dalle elementari ci hanno insegnato che qualcuno ha deciso di fissarla, arbitrariamente, sugli Urali.

La differenza con l’America, però, non è solo di ordine geografico; anzi, in Europa, la storia e la politica, e perfino la religione, si fanno beffe della geografia. Perché, infatti, Cipro dovrebbe essere incontestabilmente europea, pur trovandosi a sud della penisola anatolica e a cento chilometri appena dalle coste del Libano, mentre la Turchia non lo è (o comunque si ritiene comunemente che non debba esserlo)? Perché l’Armenia e la Georgia sono considerate europee pur trovandosi, sulla carta geografica, a est della Turchia? e perché l’Azerbaigian, che coabita con Armenia e Georgia nello stretto spazio transcaucasico, non è mai definito europeo, pur trovandosi incontestabilmente a ovest degli Urali?

“Cafeteria europeans”

Alcuni decenni fa, negli Stati Uniti fu creata la formula “cafeteria catholics” per designare quei credenti che scelgono, tra i vari insegnamenti e comandamenti della chiesa, quali rispettare e quali no, come fossero alla mensa aziendale. Si potrebbe, nel nostro caso, parlare di “cafeteria europeans”: tra coloro che si chiedono cos’è l’Europa, ognuno sceglie la risposta che più soddisfa le proprie convinzioni, le proprie speranze o le proprie aspettative. Sono in molti, per esempio, a essere convinti che la Romania e la Bulgaria non abbiano niente a che fare con l’Europa come se la immaginano loro, e altri estendono questa considerazione a tutti i paesi dell’ex area sovietica. La discussione di alcuni anni fa se la Turchia fosse o meno europea, invece, sembra oggi definitivamente chiusa.

Ma si trovano “cafeteria europeans” anche tra gli specialisti: in un testo pubblicato nel 2007, il geografo e diplomatico Michel Foucher asseriva che, per «partiti, governi, commissione, lobby, l’Europa [l’Unione europea] ha vocazione a estendersi all’insieme del continente, fino a coincidere con l’area del Consiglio d’Europa». È quantomeno dubbio che, nel 2007, «partiti, governi, commissione, lobby» concordassero sul progetto di allargare l’Ue fino a includere tutti i 47 paesi del Consiglio d’Europa (comprese Russia e Turchia), ma il punto di osservazione di Foucher gli permetteva probabilmente di coltivare questa aspettativa. Samuel Huntington, invece, tracciava una linea di demarcazione che tagliava fuori i paesi ortodossi (Grecia, Cipro, Romania, Bulgaria, etc.) che farebbero parte, secondo lui, di una «civiltà» diversa, ostile alla «civiltà occidentale».

Da qualche settimana abbiamo scoperto che l’Ucraina è indiscutibilmente europea, mentre si continua a escludere che la Bielorussia lo sia; l’Europa, ci viene detto, è una “comunità di valori”, e quindi l’Ucraina ne fa parte, la Bielorussia (e tantomeno la Russia) no. Ma la “comunità di valori” è molto più soggettiva e peregrinante di quanto non lo sia la “comunità geografica”: negli ultimi anni, abbiamo visto la Polonia e l’Ungheria entrare e uscire in continuazione dalla “comunità di valori” europea, secondo valutazioni che hanno ben poco a che vedere coi valori (che, come diceva Carl Schmitt, valgono solo se si ha la forza di farli valere).

Sul piano dei valori, c’è un’Europa religiosa e un’Europa miscredente; c’è un’Europa per la quale l’aborto è un diritto e un’altra per cui è un delitto; un’Europa che promuove il matrimonio omosessuale e un’altra che considera l’omosessualità una “moda” importata, da scoraggiare o perfino da reprimere. La promozione d’ufficio dell’Ucraina nel gruppo dei paesi che condividono i “valori europei” non collima con la tassonomia di Huntington, e due recenti inchieste sui “valori” (Pew Forum Center e European Values Study) sembrano dargli ragione: su tutti i temi di società – immigrazione, omosessualità, aborto –, l’Ucraina appare in effetti molto più prossima alla Russia che all’Europa occidentale. Per non parlare della corruzione: secondo l’organismo tedesco che ne misura annualmente la percezione nel mondo, nel 2021 l’Ucraina era al 122° posto su 180 paesi, tra la Sierra Leone e lo Zambia, appena un po’ meglio piazzata della Russia (134° posto), e comunque più vicina alla Corea del nord (174°) che alla Germania (10°) o alla Polonia (42°).

Le Europe sono numerose anche dal punto di vista istituzionale. C’è l’Unione europea, a sua volta suddivisa in paesi dell’eurozona e paesi che hanno conservato le divise nazionali; c’è l’area Schengen, che interseca l’Ue ma ne comprende solo 22 paesi su 27, mentre quattro suoi membri – Svizzera, Norvegia, Islanda, Lichtenstein, più Gibilterra – non fanno parte dell’Ue; c’è lo Spazio economico europeo, che unisce i paesi dell’Ue e quelli dell’Efta – Norvegia, Islanda, Lichtenstein e Svizzera –, meno quest’ultima, che se n’è chiamata fuori; c’è l’Europa della Nato, allargata adesso a due membri dell’Ue, Svezia e Finlandia, in cui sono presenti paesi che non fanno parte dell’Ue, come il Regno Unito, la Norvegia, l’Islanda e la Turchia, e non solo; e c’è il Consiglio d’Europa, i cui membri sono scesi a 46 dopo l’uscita della Russia, ma che comprende la Turchia. Il 9 maggio scorso, a Strasburgo, Emmanuel Macron ha proposto di aggiungere a questa lista una «comunità politica europea», una sorta di sala d’attesa dell’Ue in cui verrebbero fatti accomodare Ucraina, Moldavia, Georgia più i paesi balcanici candidati all’adesione e, chissà, un giorno, magari, anche il Regno Unito (ma non la Turchia).

Quindi, chiedersi cosa si intenda quando si parla di Europa ci lascia di fronte a un’alternativa: o aprire una palestra in cui tutti i “cafeteria europeans” possano dar sfogo alle proprie aspirazioni e fantasie, o riconoscere che la sineddoche da cui siamo partiti è qualcosa di più di una semplice figura retorica: quando, nel linguaggio politico, si parla di Europa, si parla dell’Unione europea non per pigrizia intellettuale, ma perché, fuori dei confini dell’Unione europea, il profluvio di Europe rende ogni discussione sull’argomento una incomprensibile e vana cacofonia.

Identificare l’Europa con l’Unione europea è l’unico modo per affrontare il vero problema politico del vecchio continente: l’assenza di un interesse comune, e quindi di una visione comune, e quindi di una politica comune. Detto in altri termini: di fronte a qualsiasi complicazione internazionale, la domanda “qual è la posizione dell’Europa?” è destinata a restare senza risposta, perché l’Europa, in quanto entità politica, semplicemente non esiste. L’Unione europea è nata per portare il continente al livello imposto dalla competizione con le altre grandi potenze, ma può farlo solo se i suoi ventisette membri riescono ad armonizzare i loro interessi e a coalizzare le loro forze. Al momento attuale, ne sono molto lontani, e la guerra in Ucraina li ha allontanati ancora di più.

Le fratture

L’Europa è attraversata da quattro linee di faglia principali. La prima è storica. Robert Kaplan ha individuato cinque lasciti principali: l’Europa mediterranea, l’Europa bizantino-ottomana, l’Europa carolingia, l’Europa prussiana e, infine, l’Europa asburgica. Ognuna di esse ha avuto la sua storia, il suo nucleo, le sue linee di espansione e sfere d’influenza, lasciando tracce che la breve avventura dell’Unione europea non ha cancellato. Molte delle sue regioni devono ancora oggi fare i conti con tendenze divergenti perché si sono sviluppate in più d’una di queste aree storiche (caso tipico la Lombardia, che accumula lasciti mediterranei, carolingi e asburgici).

La seconda, che procede dalla prima, riguarda le linee di politica estera: c’è un’Europa che guarda al Mediterraneo, una che guarda all’Atlantico, una che guarda ai Balcani e una che guarda, decisamente, a est; e molti paesi guardano in più direzioni allo stesso tempo. Negli ultimi mesi ci siamo abituati a catalogare i membri dell’Ue in base alle loro relazioni con la Russia; è un esempio efficace: come può esprimere una politica estera coerente un insieme in cui coesistono paesi che vorrebbero la scomparsa pura e semplice della Russia e paesi che sono più o meno strettamente legati alla Russia? La stessa cosa vale, ovviamente, per il rapporto con gli Stati Uniti, con la Cina, con il medio oriente, il nord Africa, l’Africa occidentale, e così via.

La terza linea di faglia riguarda il debito. L’Europa si divide tra paesi virtuosi, che rispettano le regole, e paesi spendaccioni, che pretendono di farsi mantenere, almeno in parte, dai virtuosi. Non è l’Europa del sud contro l’Europa del nord, secondo una caricatura ricorrente, a meno di non voler mettere la Francia nell’Europa del sud (idea che ai francesi fa ribrezzo, ma non quando serve per chiedere con più forza all’Europa del nord di pagare le sue bollette). Anche se i governi dei paesi-formica avessero la volontà politica di sanare i debiti dei paesi-cicala, non ci si può aspettare – soprattutto in tempi di inflazione e di crisi – che gli elettori/contribuenti dei paesi-formica continuino a tollerarlo.

La quarta linea di faglia riguarda la moneta. La zona euro costituisce il nucleo di un’Europa federale, proprio perché s’impernia su una struttura federale, che è la Bce. Le politiche della Bce potrebbero essere il vettore di una convergenza su obiettivi politici, dai quali però i paesi refrattari all’euro non si sentirebbero vincolati (a meno di non farli propri, e quindi di entrare nella zona euro).

Senza un centro di gravità, queste linee di faglia – cioè tutti i singoli interessi locali e nazionali – continueranno a lacerare l’Europa tirandola in direzioni diverse e a volte opposte, e continueranno a rendere impossibile l’identificazione di un comune interesse europeo. Senza sapere cosa vuole e cosa non vuole l’Europa, una politica estera continentale e, a maggior ragione, una politica di difesa e un esercito, restano confinati nella riserva dei sogni irrealizzabili. Parlare di politica estera e di difesa comune europea, oggi, è come costruire una casa volendo cominciare dal tetto.

L’asse franco-tedesco

In teoria, un centro di gravità ci sarebbe: l’asse franco-tedesco. Inutile dilungarsi qui sulle ragioni storiche, politiche ed economiche per cui Francia e Germania sono il perno dell’Europa in fieri; una considerazione empirica è sufficiente: senza la convergenza tra questi due paesi, iniziata nel secondo dopoguerra, l’Unione europea non esisterebbe. Punto. Gli altri venticinque membri dell’Ue si sono progressivamente aggregati attorno al nucleo franco-tedesco per le stesse ragioni per le quali la Francia e la Germania hanno avviato la loro riconciliazione dopo secoli di massacri reciproci: accrescere la loro massa critica politica per non precipitare nell’insignificanza, e per non finire aspirati da un’altra massa senza averlo scelto.

Il primo passo del processo di identificazione di un interesse comune europeo è quindi il processo di identificazione di un interesse comune franco-tedesco. L’identificazione di un interesse comune esige non solo di sapere ciò che si vuole, ma soprattutto esige di decidere a cosa si è disposti a rinunciare: finché Parigi continuerà a considerare l’Europa come una continuazione della Francia con altri mezzi, per esempio, questo interesse comune non potrà essere individuato e l’asse franco-tedesco non potrà diventare il reale centro di gravità dell’Europa; anzi, il rischio di una spaccatura definitiva dell’Europa ne sarà aggravato.

La proposta avanzata a Strasburgo da Macron, di cambiare passo e ripartire da un nucleo più omogeneo rompendo il mito giuridico dell’eguaglianza tra gli stati membri non sarebbe certo la soluzione, ma eliminerebbe almeno il vincolo paralizzante dell’unanimità. Tuttavia, non si può mancare di notare che il presidente francese ha essenzialmente rimesso in pista due proposte lanciate, rispettivamente, nel 1989 da François Mitterrand (la «comunità politica europea»), e nel 1994 da Karl Lamers e da Wolfgang Schäuble (una struttura a cerchi concentrici attorno al nucleo della Kerneuropa). Quei due progetti, nonostante siano stati presentati a un’epoca in cui il processo di integrazione europea stava avanzando sospinto da uno slancio quasi irrefrenabile, non sono mai stati realizzati. Occorre essere dotati di una grande riserva di ottimismo della volontà per sperare che possano essere realizzati oggi, a un momento in cui quel poco di iniziativa politica di cui l’Europa era capace è incagliata nella crisi del debito e nella crisi militare ucraina.

Slittamento a nord-est

Grazie all’aggressione russa all’Ucraina, il baricentro dell’Unione europea si è allontanato dal Reno per spostarsi verso il Baltico, dove si concentrano gli amici più intimi di Washington e i nemici più feroci di Mosca. Appena emessa, la proposta di Macron di rivedere i trattati europei ha suscitato l’opposizione di tredici paesi dell’Ue (sette dei quali non fanno parte dell’eurozona), tra cui il fronte dei falchi antirussi (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania), un gruppo di loro simpatizzanti (Romania, Repubblica ceca, Bulgaria, Croazia e Slovenia), i due neo-candidati all’ingresso nella Nato (Svezia e Finlandia), più Malta e la Danimarca. Alla luce di questo slittamento verso nord-est, il voto con cui i danesi hanno deciso di aderire alla politica di difesa comune dell’Ue sembra rafforzare più questa rinnovata versione della “nuova Europa” antirenana e filoamericana che i sogni di grandezza della “vecchia Europa” franco-tedesca.

Questo spostamento di baricentro non può che indebolire il progetto europeo. Non solo perché i tredici recalcitranti rappresentano solo il 17 per cento del Pil e il 24 per cento della popolazione dell’Ue, mentre i sette paesi che hanno sostenuto la proposta Macron (i sei fondatori del Mec più la Spagna – una Kerneuropa potenziale) rappresentano il 73 per cento del Pil e il 64 per cento della popolazione; ma soprattutto perché il progetto europeo ha qualche possibilità di successo solo se il suo baricentro resta là dove è nato e dove si concentra la sua sostanza politica ed economica: il Reno.

Gli ottimisti della volontà fanno molto affidamento sulla validità eterna della celebre affermazione di Jean Monnet secondo cui «l’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate a tali crisi». Finora, è vero, il passo lento e asfitticamente legalistico del processo europeo è stato sempre bruscamente accelerato dalle crisi, ed è anche vero che queste accelerazioni hanno sempre condotto a una maggiore integrazione. Ma non è un fato, e le crisi, per loro natura, sono più distruttive che costruttive. Se i paesi dell’Ue fanno affidamento sulle crisi per poter dar vita a una realtà politica, la domanda “cos’è l’Europa” è destinata a restare senza risposta, se non quella, famosa, che Metternich destinò all’Italia: una mera espressione geografica, alla mercé delle potenze più attrezzate.

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