Un paio di settimane fa la deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez è stata insultata da un collega del Congresso, Ted Yoho, che sulle scale del Capitol Hill l’ha chiamata “fucking bitch”. La circostanza è stata riportata dal quotidiano online The Hill e poi smentita dell’interessato, che si è lanciato in una disastrosa autodifesa basata sul fatto che ha una moglie e due figlie, cosa che gli impedirebbe di ricorrere al linguaggio dell’insulto e dell’umiliazione verso le donne Ocasio-Cortez gli ha risposto con un memorabile discorso al Congresso, nel quale ha allargato lo spettro della sua critica: “Questa vicenda non riguarda un episodio isolato. È una questione culturale. È una cultura dell’impunità, una cultura che accetta la violenza e il linguaggio violento verso le donne e un’intera struttura di potere che sostiene tutto questo”, ha detto.

Denunciando l’insulto ricevuto, la deputata ha in realtà denunciato tutte le occasioni in cui si consuma una molestia verbale ai danni delle donne, un’ampia gamma di circostanze che comprende anche il catcalling, il fischio o l’apprezzamento fatto per strada che assume una dimensione umiliante e offensiva anche per quel senso di impunità, condannato da Ocasio-Cortez, che induce negli uomini che lo praticano. E in quelli che assistono senza dire nulla, tacitamente approvando la dinamica di potere che occhieggia dietro allo scambio.


Il caso americano solleva perciò un tema sempre più dibattuto: come intervenire quando si è testimoni di una molestia, fisica o verbale, ai danni di una sconosciuta.

È giusto reagire? Qual è la reazione giusta? Quando è opportuno intervenire?

Le risposte a questi interrogativi non sono univoche. Bisogna però iniziare a chiamare in causa anche chi è solo spettatore del catcalling, aprendo un dibattito sulle responsabilità di chi, tacendo, acconsente. Perché l’alternativa, quella di ridurre le molestie a una questione esclusivamente femminile, non basta per risolverlo. Secondo i dati Istat, riguardano quasi la metà delle donne italiane.

Negli ultimi giorni si è diffusa su Instagram una nuova challenge, le “sfide” in cui l’utente deve dimostrare di appartenere alla community.

In questo caso le proprietarie dei profili hanno postato proprie foto in bianco e nero, incoraggiando i contatti femminili a farlo a loro volta, contribuendo così alla campagna #womensupportingwomen.

L’origine del trend, che ormai raccoglie più di 8,5 milioni di contributi, è incerta. Qualcuno lo collega al discorso di Ocasio-Cortez, che è già diventato un manifesto di autodeterminazione e femminismo.

Secondo la giornalista del New York Times Tariro Mzezewa il riferimento è invece alle foto in bianco e nero con cui nei media turchi tradizionalmente vengono rappresentate le vittime di femminicidio. L’ultima è quella di Pınar Gültekin, picchiata e strangolata dal suo ex, che poi ha bruciato il corpo in un bidone dell’immondizia e l’ha ricoperto di cemento. La tendenza però è rivolta alle donne che coinvolgono a loro volta altre donne: chi rimane fuori sono le persone che potrebbe intervenire, chi è nelle vicinanze quando le molestie hanno luogo.

Bisogna capire che cosa sia una molestia. Non c’è una definizione univoca, un “ah bona!” urlato per strada a un gruppo di ragazze ha un valore diverso da quello rivolto a una donna sola di notte, magari pronunciato da una macchina che minacciosamente accosta. L’obiettivo non è neanche “colpevolizzare il maschio in quanto tale”, come si legge in un intervento sul blog del giornalista Nicola Porro.

Un’altra questione riguarda la reazione della persona in difficoltà di fronte all’aiuto di uno sconosciuto: non è detto venga automaticamente apprezzato, anche perché il gesto potrebbe riproporre le stesse strutture di potere che intende combattere. Oltre a essere infastidita da un uomo, la donna si trova ad aver bisogno di un altro uomo che la salvi da quella situazione.

Sentirsi impotenti non è mai bello.

 

Certo, quando si arriva all’opposizione fisica, alle grida per attirare l’attenzione o chiedere aiuto, i fatti sono chiari. Mentre tutto quel che viene prima può essere soggetto a interpretazione. Non si tratta di demonizzare l’approccio in sé, né di considerare la donna in una condizione di inferiorità fisica o intellettuale, ma di capire se la scena a cui si sta assistendo sia desiderata oppure no e se sia il caso di intervenire per evitare esiti gravi.

Il discrimine è sottile e non tutte le donne che ricevono apprezzamenti per strada ne sono infastidite. Un altro piano rilevante in queste dinamiche è il ruolo del gruppo. Il modo migliore di liberarsi dal catcalling è renderlo poco interessante per chi lo pratica.

Se dopo un commento evidentemente sgradito alla destinataria, un amico dice all’autore che poteva anche risparmiarsela, magari la prossima volta cambierà strategia. Di certo, non si tratta di un cambiamento culturale che si può imporre dall’alto, oppure che può essere lanciato coinvolgendo solo una parte degli attori in scena.

Allargare la conversazione, rivolgersi anche a chi osserva e basta, creare una responsabilità condivisa: sono tutti elementi che possono portare a sradicare l’indifferenza diffusa che oggi incontra chi si deve confrontare con esperienze di catcalling.

Anche stavolta contiamo sul vostro contributo. Vogliamo leggere le vostre storie, capire se e come interverreste di fronte a una scena di molestie, capire che misura ha per voi la parola “molestia”.

 

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