Uscire dall’ombra cinese: la missione impossibile del sovranista Trump

Quella che è andata formandosi negli ultimi decenni nello spazio dell’Asia-Pacifico è stata in larga misura una doppia egemonia: statunitense nella sfera della sicurezza; cinese in quella economica. Gli Usa hanno preservato e addirittura consolidato una rete di alleanze militari bilaterali e minilaterali nella regione, a partire da quelle – fondamentali – con Giappone e Corea del Sud. Per varie ragioni – su tutte la persistenza di profondi antagonismi interstatuali e il lascito tossico di un passato da cui nessuno riusciva pienamente ad affrancarsi – non vi sono state forme d’integrazione securitarie come quella tra Europa e Stati Uniti nello spazio nordatlantico. Gli Usa hanno però costituito il garante della stabilità regionale e il fornitore esterno di sicurezza a numerosi paesi dell’area. In parallelo, la Cina ha visto progressivamente esteso il suo peso economico, grazie al commercio e – almeno fino a pochi anni fa – a un incremento esponenziale dei suoi investimenti esteri diretti. Tokyo s’inchina a Trump. La strategia anticinese su terre rare e riarmo Equilibri fragili A lungo questa doppia egemonia è parsa svilupparsi in modo non antagonistico e per certi aspetti addirittura complementare. La Cina, e la sua crescita economica nella regione, beneficiavano della stabilità prodotta dall’ordine securitario Usa-centrico; così come ne giovavano numerosi interessi economici statunitensi in un contesto nel quale molti stadi delle catene di valore globali si sviluppavano dentro lo spazio dell’Asia-Pacifico. Si trattava però di un equilibrio fragile, basato su precise condizioni che sono progressivamente venute meno, a partire dalla scelta della Cina di non voler mettere in asse la sua crescita economica con ambizioni di potenza, regionali e globali; e dall’interesse statunitense a preservare forme di (inter)dipendenza con la Cina, che garantivano alti consumi di beni importati a basso prezzo, profittevoli delocalizzazioni, sostegno al dollaro (e al debito americano), ma che offrivano alla Cina una forte influenza. Condizioni, queste, che sopravvissero in una certa misura agli effetti immediati della crisi del 2008, dalla quale si uscì anche, se non soprattutto, grazie alla collaborazione tra i due giganti nel sostenere la domanda globale (collaborazione, questa, estesa poi ad altri ambiti, dalla riforma del Fondo monetario internazionale al dossier del nucleare iraniano sino alla collaborazione multilaterale nella lotta al cambiamento climatico). Ma che non ressero alla contestazione e al rigetto della globalizzazione e della sua grammatica cosmopolita, provocate da quella crisi, così centrale nell’incubare il sovranismo trumpiano. Negli ultimi dieci anni, gli Usa hanno promosso diverse iniziative per emanciparsi dalla interdipendenza con la Cina e per attivare misure atte a contenerne l’influenza. Nell’Asia Pacifico l’assunto è stato, e continua a essere, che la doppia egemonia avvantaggia ormai primariamente Pechino. Così come l’avvantaggiano forme d’integrazione globale che rendono molti paesi dipendenti dalle risorse, dai prodotti e dagli investimenti cinesi. Il viaggio di Donald Trump in Asia va letto in questo contesto. È parte di un’azione finalizzata, in ultimo, al contenimento della Cina e all’affrancamento della dipendenza da essa, attraverso un progressivo disaccoppiamento delle due economie. Disaccoppiamento che in realtà è in corso da alcuni anni, come evidenziano la contrazione degli scambi commerciali, il crollo degli investimenti esteri diretti e la decisione cinese di alleggerire gradualmente i suoi asset in dollari, a iniziare dai titoli del Tesoro americano. Tra terre rare, soia e dazi: braccio di ferro Trump-Xi La clava americana Il disegno dell’amministrazione Trump – che oggi incontrerà Xi Jinping in Corea del Sud – è però più ampio ovvero cerca di collegare diversi dossier a questo disaccoppiamento dalla Cina. Utilizza la clava della potenza statunitense, e la protezione che essa offre ai suoi alleati nella regione, per estrarre varie concessioni: a pagare maggiormente questa protezione, in forma di sostegno del debito statunitense (di cui il Giappone è tornato a essere il principale acquirente estero) o di aumento delle spese militari; a investire negli Usa per sostenere la chimerica reindustrializzazione promessa da Trump; a concedere prioritariamente agli Usa materie prime di cui hanno assolutamente bisogno; a partecipare anch’essi, in modo più incisivo e coerente, al disaccoppiamento economico da Pechino; a offrire, magari, qualche remunerativa opportunità agli affari dello stesso Trump e della sua famiglia. L’ordine liberale è morto, l’interregno genera mostri È davvero coerente e realistica questa strategia? E quali rischi comporta? Per rispondere, dobbiamo tornare alla categoria di interdipendenza: quel reticolo di dipendenze plurime e reciproche che limita la sovranità e la libertà d’azione di tutti gli attori del sistema internazionale. Inclusi gli stessi Stati Uniti, potenza superiore e quindi “più sovrana” degli altri, ma non pienamente sovrani. Ancor oggi, ad esempio, dipendenti dal Giappone per il finanziamento del loro debito, dal Vietnam per tanti stadi produttivi che vi sono trasferiti negli ultimi anni, dalla stessa Cina, per numerosi beni intermedi o finiti, e ancor più per alcuni minerali critici, ad alto valore strategico, come le famose terre rare. Interdipendenze, queste, che richiederebbero strategie accorte, gradualistiche e prudenti, molto lontane – nella forma e nella sostanza – da quelle di Donald Trump.