Partiamo dai grandi numeri: la Turchia è il dodicesimo paese per numero di rifugiati ospitati; si calcola che  ve ne siano 6 milioni. Di questi 3.639.527 provengono dalla Siria, che è paese confinante; di cui, secondo dati ufficiali (Unhcr e Ihd – Associazione per i diritti umani), 14.218 hanno trovato collocazione nella sola provincia di Diyarbakir, ma le Ong sostengono che sono molti di più. I rifugiati afghani sono più di 300mila e, naturalmente, sono andati crescendo dall’agosto 2021.

Ora facciamo uno zoom come con Google maps: estremo sudest della Turchia, un tempo territorio armeno, oggi turco, anche se costellato di resti di civiltà armena, in buona parte territorio curdo, confinante con l’Iraq (poco), con l’Iran (parecchio), con la Siria (molto), con l’Armenia (per un bel tratto). Un vero e proprio crocevia di popoli.

È zona montuosa, che culmina con il grande cono  del monte Ararat, alto più di 5.000 metri, al confine con l’attuale Armenia: montagna che si vede da centinaia di chilometri di distanza, in pratica da tutto il deserto dell’altopiano anatolico: non per nulla esso ha assunto un valore per così dire “simbolico” per tre religioni e gli armeni lo considerano roba loro, anche se è finito nel territorio della Turchia.

A fronte dell’Ararat le catene che lo accompagnano sembrano monticelli, ma sono montagne molto aspre, che spesso raggiungono i 3.000 metri. Per molti mesi l’anno non solo l’Ararat, che ha la cima innevata anche d’estate, ma tutta la catena che separa l’est della Turchia dagli altri paesi è coperta di neve: neve alta e persistente, ghiacciata, battuta dalle tempeste di vento anche nei valichi meno alti. Ma, proprio perché il clima è così inospitale, favorisce il passaggio clandestino di siriani e rifugiati di altre etnie più lontane. Per loro la Turchia è l’anticamera dell’Europa.

A poco a poco si distingue il lago e la città di Van, non lontano dal confine iraniano. La città porta vestigia armene, selgiuchidi e ottomane. Si stende placidamente, con le sue moschee e i suoi caravanserragli, sulle rive del lago Van: un lago grande quanto un mare piccolo.

D’estate luogo benedetto per la pesca e le scampagnate, d’inverno, quando i venti sollevano le onde, luogo invece maledetto, perché le piccole imbarcazioni dei pescatori facilmente si rovesciano nelle sue acque gelide.

Zoomando ancora possiamo mettere a fuoco l’isoletta di Ciarpanac, facilmente raggiungibile con un battello, dove si erge, si fa per dire, l’antica chiesetta della Santa Croce dalla tipica architettura armena, con la sua cupola a cono. D’inverno spesso la cupola, coperta di neve, sembra un candido pan di zucchero.

Il passaggio della morte

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Guardiamo meglio nelle acque intorno all’isola e nei passi montani che si alzano subito alle spalle della riva e della città di Van. Proprio lì, un po’ più su un po’ più giù, ma non di molto, negli ultimi tre anni almeno 160 uomini, donne e bambini sono morti nell’attraversare il confine turco dai tre paesi esterni: di questi, 49 per ipotermia, 68 annegati nel lago, 42 in incidenti e uno colpito da un colpo di arma da fuoco. Questi i dati ufficiali.

La realtà, stando alle cronache, è molto peggio. Certo, se confrontiamo questi numeri con i 10.000 e più morti nel Mediterraneo e nell’Egeo dal 2014, sono inezie.

Nel luglio scorso una barchetta con 70 persone che cercavano rifugio si è rovesciata nel lago di Van e solo 32 corpi sono stati recuperati. Nel dicembre scorso un’altra imbarcazione, vicino alla cittadina di Bitlis, dall’altro lato del lago, si è rovesciata, ma questa volta è andata meglio: 64 si sono salvati e sette sono morti in fondo al lago: ma per via di terra non va meglio.

Alcuni giorni fa i corpi di due afghani sono stati rinvenuti su un passo non lontano da Van, in territorio ormai turco e i loro corpi sono stati scaraventati al di là del confine. Non li si voleva nemmeno da morti.

La sera dell’antivigilia di capodanno, sempre vicino a Van, una donna è morta assiderata per aver coperto con i propri vestiti i due figlioletti perché non morissero di freddo. I due bimbi sono stati salvati dagli abitanti del più vicino villaggio. Per la mamma non c’era più nulla da fare.

Viene in mente il celebre film Yol (La strada) del 1980, “girato” dal noto regista Yilmaz Guney mentre era in carcere in quanto oppositore dei militari al governo (in realtà lo shooting fu fatto da un suo allievo, su indicazioni però del maestro detenuto, scena per scena): stesse montagne, stesse tempeste di neve, in un bianconero abbacinante. Con il protagonista che valica i passi con la madre (o era la moglie? francamente non ricordo) sulle spalle: stessa neve, stessi picchi che deve aver visto quella madre che si toglie i pochi stracci che aveva addosso per coprire i due figlioletti e salvarli.

La discriminazione

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Il nostro zoom si ferma qui, su questa madre assiderata e sui suoi due bambini salvati. Poi si amplia di nuovo fino a comprendere le province di Van e di Diyarbakir: 160.000 rifugiati almeno, che cercano di stabilirsi lì in campi governativi (quelli di Erdogan, pagati lautamente dall’Europa) o in campi improvvisati o direttamente in alcuni quartieri della città.

Paradossalmente, proprio questi ultimi soffrono di più: nei due capoluoghi sentono il peso di una forte discriminazione. Si arrangiano sottopagati e così mandano avanti l’economia di questo estremo lembo di Turchia (ma accade così anche nella megalopoli di Istanbul e altrove), ma vengono fatti oggetto di dileggio quando non di violenze vere e proprie, magari traendo spunto dall’accento che inevitabilmente, pur essendo curdi essi stessi, magari, risente della loro lingua madre.

Ci sono donne che ormai non vanno nemmeno più alla bottega o al bazaar, per non essere costrette a prendere la merce peggiore e, se per caso si lamentano, sentire la fatidica frase «Tornatene da dove sei venuta».

Difficile dire se in questa discriminazione siano in prima fila i turchi o i curdi, ma, specialmente a Diyarbakir, la maggioranza è inequivocabilmente curda e dunque non ci piace proprio che chi chiede solidarietà per le condizioni in cui si trova (mancanza di autonomia, privazione della lingua e della propria cultura, oggetto di ogni genere di violenza e repressione) poi si accanisca sugli ultimi incolpevoli arrivati.

Sappiamo che ai tempi del genocidio armeno, nel 1915, il “lavoro sporco” era delegato dai turchi ai curdi, e tutta la tragica marcia nel deserto dalle provincie armene fino a Dar el Zor fu condotta da manovalanza curda. Ma, lo sappiamo, la storia non insegna proprio niente.

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