Non è facile vivere da rifugiati, nessuno sceglie di esserlo, purtroppo lo si diventa. Subentra anche una crisi esistenziale, perché ti senti guardato con sospetto, se non con disprezzo, da una società dove approdi dopo tante fatiche, pericoli di vita, distacco dagli affetti e lutti. Oggi sono un rifugiato qui in Italia, ma sono nato e cresciuto nei primi anni in Afghanistan, in una città come Ghazni ricca di storia, paragonabile nel passato alla Firenze del Rinascimento, ma tormentata da oltre 40 anni di guerra.

Un’infanzia “normale”

Ho passato la mia infanzia tra la felicità e l’angoscia: la mia famiglia stava bene, si facevano feste e potevo invitare a casa amici con cui giocavo e mangiavamo insieme. Mio padre aveva studiato giurisprudenza, era il capo del suo partito al governo della città, mio nonno era stato deportato in Russia durante la guerra tra l’Unione Sovietica e l’Afghanistan. Frequentai due scuole, una normale, sotto un albero all’inizio e quindi sotto un tendone, e una coranica nella moschea. Ero felice anche se la mattina e la sera vedevo i segni della guerra, le scie dei proiettili che passavano sopra le case, e per strada bambini e adulti mutilati.

La situazione delle donne era particolarmente difficile: non potevano lavorare, non potevano studiare, uscire di casa senza un uomo di famiglia, erano figlie di, madri di, ma nemmeno i figli conoscevano il loro nome. In famiglia si stava abbastanza bene, ma la vita della città era molto triste: non si poteva ascoltare o fare musica, andare al teatro o al cinema, nemmeno vedere una partita. Forse in questo momento di pandemia si può capire cosa sono queste privazioni, che per noi erano continue e normali. Almeno qui c’è la tv, ma lì era proibita pure quella.

Vivo per miracolo

All’improvviso è piombata la tragedia sulla mia famiglia, con un attentato mortale prima a mio padre e dopo pochi mesi con l’uccisione di mia mamma, mia nonna e della mia sorellina. Io, mio fratello e la mia sorella maggiore ci siamo salvati perché eravamo dalla zia. Nell’anno in cui siamo rimasti con la zia in Afghanistan io ero come impazzito dal dolore, non andavo più a scuola e non volevo nemmeno uscire di casa. Continuamente mi chiedevo: «Perché? Cosa ho fatto io?».

Quindi siamo scappati in Pakistan, a Quetta, dove già allora c’erano tantissimi profughi afghani. Lì ho potuto riprendere a frequentare la scuola per due anni e ho visto per la prima volta il simbolo dell’Unhcr, le due mani protettive; mi brillavano gli occhi perché pensavo: qualcuno si occupa di te. La zia però mi diceva che sarebbe stato troppo pericoloso per me rimanere lì, dovevo andare via, e mi ha affidato a un trafficante fino a Teheran, dove avrei potuto trovare un lavoro e forse un po' di sicurezza maggiore rispetto a Quetta.

Il viaggio tra incubi e speranze

Avevo dodici anni e incominciava il mio lungo viaggio, che fino alla capitale dell’Iran è durato 23 giorni, pieno di pericoli di ogni tipo. Ho lavorato per due anni in una fabbrica di notte, avevo il sogno di studiare ma non ne avevo la possibilità. Anzi, ho subito sulla mia pelle le umiliazioni e paure di essere ricacciato indietro. Dopo due anni, ho deciso di partire per l’Europa, è stato un viaggio tra la vita e la morte, attraversando il confine tra l’Iran e la Turchia, rimanendo tanto tempo senza acqua, senza cibo, con i piedi sanguinanti perché molti tratti dovevo farli a piedi. Nel percorso per arrivare dalla Turchia alla Grecia ho visto compagni e compagne morire, ancora li rivedo negli incubi notturni.

L’arrivo in Italia e la fondazione di Unire

Dalla Grecia mi sono imbarcato di nascosto sotto un tir, sul semiasse, che poi da Venezia mi ha portato fino in Alto Adige. Qui ho potuto iniziare la mia nuova vita. Ho potuto inserirmi in una scuola, non mi sembrava vero di riprendere a studiare, quasi una nuova rinascita. L’emozione dei primi giorni di scuola si esprimeva in qualche lacrima che cercavo di nascondere. Qui ho iniziato un lungo percorso di formazione che per me è stato grandioso, andando oltre ai miei sogni. La scuola non è stato solo un luogo di apprendimento, ma soprattutto un laboratorio di umanità, relazioni positive, sensibilità.

Ho conosciuto dal nord al sud un paese fantastico, dove persone in silenzio fanno cose straordinarie, e nel mio caso un’accoglienza che è stata motore del mio successo. Oggi sono editorialista, e insieme ad un gruppo di rifugiati abbiamo creato un’associazione, Unire (Unione nazionale italiana dei rifugiati ed esuli) con l’obiettivo che tutti i rifugiati, con diverse esperienze e competenze siano soggetti attivi nella società italiana, inclusi anche nei tavoli di discussione che ci riguardano. Vogliamo passare da oggetti a soggetti della narrazione, per un contributo delle nostre capacità alla società in cui viviamo, di cui ci sentiamo parte attiva.

A nome dei rifugiati, per questo 70esimo anniversario di fondazione dell’Unhcr, sempre a nostro fianco, che in questi anni ha salvato e protetto migliaia di vite, porgo il nostro caloroso ringraziamento agli operatori che si spendono in ogni angolo del mondo con tanto impegno, professionalità e creatività, anche in questo momento pandemico, nel portare gli aiuti essenziali, cibo, acqua, medicinali, tendoni, e l’istruzione per ragazzi/e. E insieme grazie anche ai sostenitori che con il loro prezioso aiuto economico riescono a cambiare il futuro di tanti. Per fortuna oggi esiste questa Organizzazione internazionale, con oltre 80 milioni di rifugiati, sfollati, apolidi nel mondo che l’Unhcr cerca di proteggere.

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