Il 1° luglio di 25 anni fa la colonia governata per 150 anni dai britannici veniva consegnata a una Repubblica popolare cinese che stava diventando un partner importante dell’occidente.

E, tra un altro quarto di secolo, nella stessa Hong Kong scadrà il principio “Un paese, due sistemi”, che Deng Xiaoping – morto il 19 febbraio del 1997, senza poter vedere realizzato uno dei suoi capolavori politici – aveva negoziato con Londra, che stabilisce che «il sistema e le politiche socialiste non devono essere praticati a Hong Kong e il precedente sistema capitalista e stile di vita rimarranno invariati».

A metà del guado. Anche se per molti, a cominciare dal campo pro-democrazia che ha scelto l’Aventino, i due sistemi diversi, le ampie autonomie garantite al Porto profumato, sono già stati, di fatto, cancellati.

Non secondo Xi Jinping, che ieri durante il suo primo viaggio al di fuori della Cina continentale da due anni e mezzo, in un discorso davanti a 1.300 delegati riuniti nel Convention and Exibition Centre ha affermato che «non c’è alcun motivo di cambiare quest’ottimo sistema» che ha contribuito allo sviluppo di Hong Kong.

Eppure, se il Porto profumato non è formalmente governato dal partito comunista, la libertà d’espressione è stata fortemente compressa dalla Legge sulla sicurezza nazionale del 2020 che punisce reati di «secessione, eversione, terrorismo e collusione con forze straniere» definiti in maniera generica (58 le associazioni della società civile sciolte finora in base alle nuove norme), mentre la possibilità che l’opposizione conquisti il governo è stata cancellata dalla riforma elettorale dell’anno scorso.

Mentre Xi pronunciava la sua orazione, il premier britannico, Boris Johnson, prometteva che «non abbandoneremo Hong Kong» e il segretario di stato Usa, Antony Blinken, denunciava una «erosione di autonomia» nella città. “Sogni coloniali” e “interferenze anti cinesi” secondo l’editoriale del Global Times che ha rispedito le accuse al mittente.

Xi invece ha sottolineato ciò che più interessa agli stranieri che fanno affari con la Cina attraverso Hong Kong, che cioè il sistema giudiziario basato sulla common law non sarà toccato: grandi multinazionali, investitori, importatori ed esportatori potranno continuare a contare su una magistratura indipendente e sui servizi legali più avanzati del paese.

Affari sì, politica no

Il presidente cinese ha rivendicato le politiche con le quali il partito comunista ha riportato l’ordine nella “città ribelle” scossa dal movimento pro democrazia del 2019 e ha assegnato al nuovo chief exeutive, John Lee Ka-chiu (che si è insediato ieri) la lista delle priorità del suo esecutivo, il cui slogan è “dalla stabilità alla prosperità”.

Lee ha promesso che «non deluderemo il presidente Xi, non deluderemo il popolo». Da lui Xi si aspetta un miglioramento dell’amministrazione che promuova anche l’identità nazionale, l’integrazione di Hong Kong all’interno dell’Area della Grande baia (il cluster di nove metropoli della provincia del Guangdong più Hong Kong e Macao), la risoluzione dei problemi sociali di Hong Kong, il mantenimento dell’armonia e della stabilità. Vasto programma.

Per realizzare il quale l’ex poliziotto che ha vinto sfidando se stesso (era l’unico candidato al ruolo di chief executive) potrà contare su una maggioranza più che bulgara: 89 rappresentanti pro establishment e uno solo di opposizione nel parlamentino locale.

Programma ampio quanto incompleto, perché le rivendicazioni dei movimenti che si sono succeduti dal 2003 al 2019 sono state soprattutto politiche: suffragio universale e autonomia, che restano tabù. Xi infatti ha ricordato che il governo centrale deve esercitare una «giurisdizione completa su Hong Kong».

La fine di un’era

Come se ne esce? Il palliativo dello sviluppo verrà somministrato anche a una società che ha assorbito altri valori culturali e in cui una parte della gioventù si è costruita (come a Taiwan) un’identità in contrapposizione a quella della Cina continentale, di cui aborre l’autoritarismo.

Ma per Xi «non potrà più esserci il caos» della rivolta del 2019, e Pechino «respingerà con la massima fermezza ogni interferenza e sabotaggio da parte di forze straniere».

«Siamo convinti che nel nuovo cammino di realizzazione del secondo traguardo del centenario del nostro paese, Hong Kong, con il forte sostegno della grande madrepatria e l’attuazione della politica di “Un paese, due sistemi”, raggiungerà sicuramente risultati ancora maggiori e condividerà , insieme ai connazionali della madrepatria, gloria del grandioso risveglio della nazione cinese».

L’anomalia di una regione amministrativa speciale con un’opposizione politica (che in alcuni casi e da parte di alcuni gruppi è stata violenta e indipendentista), una società civile vivace, ritrovo di dissidenti d’ogni sorta che si potevano esprimere liberamente, non esiste più.

Ora Hong Kong dovrà partecipare al “Grandioso risveglio della nazione cinese”, livellatore di ogni differenza promosso da Xi.

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