Da ieri la Cina è diventata un paese blindato. L’Amministrazione nazionale per l’immigrazione ha annunciato che, fino a nuovo ordine, ai cittadini cinesi sarà vietato recarsi all’estero per «motivi non essenziali». Quest’ultima restrizione rientra nell’ambito della strategia “Covid zero” e fa seguito alle limitazioni all’emissione e al rinnovo dei passaporti per viaggi «non urgenti e non necessari» decretate nove mesi fa. Gli studenti ammessi a frequentare l’università all’estero possono espatriare, ma quest’anno – causa Covid – gli esami d’ammissione sono stati cancellati in otto delle 26 metropoli che li ospitano, tra le quali Pechino e Shanghai.

La Cina aveva già sbarrato i suoi confini nel marzo 2020. Migliaia di lavoratori stranieri e cinesi che si trovavano all’estero al momento di quella prima chiusura non sono ancora riusciti a rientrare a causa della scarsità di voli e dei prezzi esorbitanti dei biglietti.

In quello che prima della pandemia era uno dei paesi più trafficati del mondo l’anno scorso sono state registrate 74 milioni di entrate da e uscite verso l’estero, il 79 per cento in meno rispetto al 2019. I passaporti rilasciati nella prima metà del 2021 sono stati 335.000, il 2 per cento di quelli emessi nel gennaio-giugno 2019.

Nazionalismo e sinofobia

L’interruzione del flusso di milioni di studenti, turisti, uomini d’affari che da occidente si spostavano in Cina e viceversa è destinata ad avere un impatto profondo nelle relazioni tra i due mondi, anche perché è accompagnata da un’esplosione di nazionalismo nella Repubblica popolare e di sinofobia soprattutto negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia.

Pechino descrive la sua risposta alla pandemia come esempio della «superiorità» del «socialismo con caratteristiche cinesi», mentre i 6,26 milioni di morti nel mondo sarebbero un sintomo della «crisi irreversibile» delle democrazie liberali.

Dopo che Xi Jinping è sceso in campo per sostenere la strategia “Covid zero”, diventata di conseguenza inattaccabile, Pechino ha risposto con sdegno alle critiche del direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, che martedì scorso aveva definito l’approccio cinese «insostenibile, considerando il comportamento del virus e quello che al momento prevediamo per il futuro». La dichiarazione di Tedros Adhanom Ghebreyesus è stata immediatamente rimossa dall’Internet cinese, anche dalla pagina WeChat dell’Oms.

Il portavoce del ministero degli Esteri, Zhano Lijian, ha risposto che «ci auguriamo che l’individuo in questione abbia opinioni obiettive e ragionevoli sul protocollo e sulla politica epidemica della Cina e cerchi di ottenere una migliore comprensione dei fatti e si astenga dal fare osservazioni irresponsabili».

L’uscita di Ghebreyesus è risultata particolarmente indigesta perché arrivata in un momento in cui la leadership di Pechino sta provando a rimediare al disastro di Shanghai, dove il focolaio sta recedendo (poco più di 3.000 casi l’altro ieri, in calo da 17 giorni), ma ha provocato 572 morti e un mare di polemiche per la gestione inefficiente e in alcuni casi brutale delle misure di contenimento.

Il disastroso legame con Putin

A sostegno delle ragioni di Pechino è arrivato l’altro ieri uno studio secondo cui la rimozione delle attuali misure anti Covid in Cina potrebbe provocare oltre 1,5 milioni di morti, 112 milioni di casi sintomatici e 2,7 milioni in terapia intensiva (i posti letto disponibili in rianimazione sono solo 64mila).

La ricerca – pubblicata su Nature Medicine da scienziati dell’Istituto di sanità dell’Università Fudan di Shanghai e dell’Università dell’Indiana – sostiene che senza restrizioni né terapie antivirali, facendo affidamento soltanto sugli scarsamente efficaci vaccini cinesi e con gli attuali 52 milioni di over 60 non immunizzati, ci sarebbe aumento vertiginoso dei contagi.

Mancano pochi mesi al XX congresso del partito, durante il quale Xi Jinping chiederà un inedito terzo mandato a guidare la Cina. Ma il Pcc è entrato già da settimane in stato di massima allerta: l’operato della leadership è messo in discussione non solo per quanto riguarda il Covid, ma anche per la gestione dell’economia che, in assenza di una significativa ripresa della mobilità, nel 2022 mancherà ampiamente l’obiettivo del +5,5 per cento di Pil.

E per la quasi-alleanza con la Russia di Putin, fortemente voluta da Xi Jinping, che rischia di causare ulteriori problemi alla Cina. Su quest’ultimo fronte si susseguono le critiche alle scelte della leadership –  nemmeno troppo larvate, come vorrebbe la tradizione – di accademici ed ex diplomatici cinesi. Uno dei massimi esperti di relazioni internazionali, Yan Xuetong, ha stigmatizzato l’invasione russa in un’intervista a Phoenix tv, e ha aggiunto: «La Cina è il più grande paese commerciale del mondo, la tendenza allo sviluppo della deglobalizzazione non è affatto vantaggiosa per la Cina. Il conflitto tra Russia e Ucraina ha intensificato la tendenza alla deglobalizzazione».

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