Scrivevamo nel precedente numero di Scenari che l’opinione pubblica è un fattore rilevante in geopolitica, utile a leggere (e comprendere) la traiettoria di un paese. Ma cosa influenza l’opinione pubblica? Cosa alimenta percezioni, orienta atteggiamenti, suggerisce i comportamenti, a livello individuale e collettivo? Almeno in parte, la narrazione. Il modo in cui le nazioni, e per loro conto i leader, raccontano sé stessi. Comunicando, all’interno e all’esterno, quale sentono essere il loro posto nel mondo.

Questa guerra è allora in un certo senso esemplare, perché ci consente di ragionare su almeno due livelli diversi. Quello delle figure e degli stili comunicativi di Putin e Zelensky – espressioni delle loro nazioni, certo, ma in possesso di più di qualche margine di manovra sul come scegliere di comunicare e comunicarsi. E quello del nostro ruolo – di lettori, cittadini, organizzazioni, media – nel recepire le narrazioni, in particolare sui social media. Come vedremo, in questo conflitto sono in gioco tratti di novità ma anche meccanismi antichi.

Potere e responsabilità

Da un lato, la narrazione di Putin è apparsa sostanzialmente coerente con le aspettative, perché coerente con la parabola della sua lunga leadership, con l’archetipo del sovrano-guerriero.

Si è presentato come guida risoluta dell’impero, pronto a (ri)vendicare i torti subiti, appagando i risentimenti della Russia ferita dalla dissoluzione dell’Urss negli anni Novanta. È apparso quasi sempre in contesti ufficiali e istituzionali, a debita distanza non solo dai capi di stato stranieri in visita, relegati all’estremità di tavoli interminabili, ma anche dai suoi più stretti collaboratori.

La messinscena televisiva del 21 febbraio, quando Putin riunisce il suo Consiglio di sicurezza in una gigantesca sala del Cremlino, ci può allora apparire come un’operazione anche narrativa.

Sotto due profili: per prima cosa, il presidente riafferma ed espone la distanza ontologica, incolmabile del leader rispetto anche ad alcuni dei più importanti funzionari degli apparati russi – i ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Interno, i capi dei servizi di sicurezza. Non sono stati convocati con l’obiettivo di coinvolgerli in una decisione, ma semmai per rafforzare una narrazione.

Ed eccoci al secondo profilo, solo apparentemente contraddittorio. Da un lato: il potere è nelle mani di Putin, non di altri. Dall’altro: la responsabilità della scelta di invadere l’Ucraina, le conseguenze della guerra saranno comunque condivise. I danni da ripartire tra tutti i presenti, anche tra chi forse questa guerra avrebbe preferito evitarla.

La trasformazione di Zelensky

Sull’altro fronte, diversissima è apparsa la narrazione proposta da Volodymyr Zelensky. Nei contenuti, evidentemente, ma anche nella forma. Gli elementi di interesse nella comunicazione del presidente ucraino sono molteplici.

Per prima cosa, il conflitto ha catapultato, nel giro di poche ore, la sua figura sul palcoscenico globale. Laddove Putin – presidente dal 1999, con un breve intervallo come primo ministro – era figura nota a tutti, Zelensky era un oggetto misterioso per gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Il leader ucraino, nel dramma dell’aggressione, si è dunque trovato di fronte a un’opportunità comunicativa rara e preziosa, quella di (ri)definirsi agli occhi del mondo.

In poche ore, quello che forse era considerato tra i leader internazionali uno di quelli dal profilo più implausibile (un ex attore comico senza esperienza politica, protagonista di una serie tv in cui interpreta un insegnante delle superiori che viene eletto a sorpresa alla presidenza), è in effetti diventato una delle figure più popolari della politica internazionale, sicuramente tra quelle guardate con più attenzione in occidente.

Ha catturato l’immaginario globale, sorprendendo di certo i molti che lo reputavano poco più che un presidente per caso. La conseguenza immediata del sapiente uso della comunicazione da parte di Zelensky, di cui parleremo più avanti, è che ha saputo rendersi protagonista della “storia” del conflitto, e dunque fonte privilegiata e diretta di ciò che stava accadendo – dalla prospettiva ucraina, con ogni evidenza – per le opinioni pubbliche, innanzitutto quelle europee e quella americana.

Un secondo profilo di interesse ha a che fare con il contenuto, con i toni della narrazione zelenskiana. Il racconto è stato da subito quello di un’Ucraina invasa, aggredita senza giustificazione.

Questo messaggio è apparso in tutta la sua forza nell’appello del 24 febbraio, a poche ore dai primi bombardamenti russi, quando – rivolgendosi ai russi, in russo, che è del resto la sua prima lingua – ha smontato, in un video di nove minuti, i casus belli che venivano da tempo agitati dal Cremlino.

«Vi dicono che siamo nazisti. Ma come può un popolo che ha perso otto milioni di vite per sconfiggere i nazisti sostenere il nazismo? Come posso essere un nazista? Ditelo a mio nonno, che ha combattuto nella Seconda guerra mondiale nella fanteria sovietica ed è morto colonnello in un’Ucraina indipendente».

«Vi hanno detto che avrei ordinato un attacco al Donbass. […] Contro chi stiamo sparando? Cosa stiamo bombardando? Donetsk, che ho visitato decine di volte? Dove ho guardato la gente in faccia, negli occhi? […] La Donbass Arena, dove ho tifato per i nostri ragazzi insieme ai ragazzi ucraini agli Europei? Il parco Shcherbakov, dove ho bevuto con gli amici quando i nostri ragazzi hanno perso? Luhansk? Dove è sepolta la madre del mio migliore amico? Dove riposa anche suo padre?».

La finalità narrativa di questo videomessaggio (l’ultimo in cui Zelensky appare vestito “da presidente”, in giacca e cravatta) consisteva anche nel cercare di parlare ai cittadini russi da pari a pari, tentando in un certo senso di separare il popolo russo dal governo russo, secondo una antica regola dell’oratoria (geo)politica.

«Vorrei rivolgermi direttamente ai cittadini russi, non come presidente, ma come cittadino dell’Ucraina»; «I vostri leader hanno scelto di fare un passo avanti ed entrare nel territorio di un altro paese»; «Vi dicono che odiamo la cultura russa. Come si può odiare una cultura? Qualsiasi cultura? I vicini arricchiscono sempre le reciproche culture».

«Conoscete il nostro carattere, conoscete il nostro popolo e conoscete i nostri princìpi. Conoscete i nostri valori. Quindi fermatevi e ascoltate voi stessi, la voce della ragione, la voce del buon senso».

Dopo l’attacco russo, lo scenario è cambiato, ma Zelensky stava ormai occupando lo spazio principale della narrazione sul conflitto. La scelta di restare a Kiev, di contrastare con ogni mezzo l’invasione ordinata da Putin, ha allora conferito credibilità al secondo grande messaggio del quadro narrativo, che resiste tuttora.

Il racconto dell’Ucraina stoicamente e inevitabilmente resistente, determinata a difendere a tutti i costi l’autonomia e il futuro del paese. Condensato nella presunta risposta – forse addirittura spuria, inizialmente riportata solo dalla Associated press citando un funzionario del governo statunitense, ma presto rimbalzata ovunque – che Zelensky avrebbe pronunciato di fronte all’offerta di lasciare Kiev con l’aiuto americano: «The fight is here; I need ammunition, not a ride» («La battaglia è qui; mi servono munizioni, non un passaggio»).

Simbolo internazionale

E siamo alla terza fase di questo disegno narrativo, quella degli appelli all’occidente, all’Europa, alla Nato. A cominciare dal Consiglio europeo del 24 febbraio, in cui, tra le incertezze di alcuni paesi sulle sanzioni alla Russia, Zelensky appare in un drammatico videocollegamento durante il quale dice ai leader europei che quella potrebbe essere l’ultima volta in cui lo vedranno vivo.

Per proseguire con gli interventi ai parlamenti nazionali. La Camera dei Comuni britannica il 10 marzo, il Congresso degli Stati Uniti il 16, la Knesset il 20, il nostro parlamento il 22.

Qui ritroviamo un altro tratto di grande interesse della macchina comunicativa del presidente ucraino: l’attenzione all’adattamento del messaggio in funzione degli interlocutori. In quest’ottica vanno letti i riferimenti storici, più o meno riusciti, modulati di volta in volta.

Gli echi di Churchill («Combatteremo nelle foreste, sulle coste, per le strade») a Westminster, dove il racconto doveva intrecciarsi alla battaglia d’Inghilterra combattuta contro la Germania nazista; i rimandi a Pearl Harbor e all’11 settembre a Capitol Hill; il ricordo – contestato – dell’Olocausto al parlamento israeliano.

L’intervento a Montecitorio è stato invece privo di rimandi storici. Nessun accenno alla Resistenza partigiana, ma un parallelismo geografico: la Mariupol distrutta come Genova distrutta.

Appropriati o no, in ogni caso, i riferimenti a luoghi e momenti del passato delle nazioni a cui si rivolgeva svolgevano un preciso ruolo di narrazione: accendere l’identificazione. Far percepire la prossimità e la riconoscibilità di quel che sta accadendo a Kharkiv, Kherson, Mariupol a quel che è accaduto a New York, Coventry, Roma, qualcosa che le opinioni pubbliche occidentali ricordano, direttamente o meno.

A questi momenti più istituzionali va poi aggiunto il flusso costante di tweet, video, messaggi su Telegram pubblicati dallo staff del presidente ucraino. C’è un’attenta pianificazione dei diversi contenuti in funzione del canale, che sorprende se consideriamo le condizioni in cui Zelensky e il suo entourage si trovano ormai da settimane.

I tweet quasi sempre testuali, più orientati su sensibilità diplomatiche; i video, più tipicamente emozionali, molti decisamente artigianali, girati con un telefono, in forma di videoselfie. Su tutti si può ricordare il filmato, diffuso la seconda notte della guerra, in cui uno Zelensky mal illuminato, circondato dal primo ministro e alcuni collaboratori in una strada di Kiev vicino al palazzo presidenziale, esprime un messaggio di grande potenza: «Siamo tutti qui. L’esercito è qui. I cittadini sono qui. Siamo tutti qui per difendere la nostra indipendenza e il nostro paese».

Il fattore della presenza fisica, della prossimità di Zelensky al teatro di guerra, evidente anche in altri momenti di comunicazione (per esempio in occasione della visita ad alcuni militari feriti, preceduta da una passeggiata all’aperto a Kiev), è decisivo, anche per il contrasto che inevitabilmente proietta con la figura di Putin, che prima dell’adunata allo stadio del 18 marzo si era sempre mostrato al chiuso, da solo o ben distante dai suoi interlocutori.

Che si tratti di un discorso pronunciato al cospetto di un parlamento, o di un video sgranato postato su Telegram nel cuore della notte, tuttavia, gli obiettivi del leader ucraino sembrano essere gli stessi.

Esercitare una pressione sui paesi occidentali, esprimendo messaggi diretti alle opinioni pubbliche perché influenzino i decisori politici, in una classica logica di advocacy dal basso.

D’altra parte, questa azione sembra amplificata e rafforzata dall’ecosistema della «politica Netflix», in cui soggetti non politici con enorme seguito social – influencer, artisti, attori, sportivi, aziende – prendono posizione su questioni politiche, guerra in Ucraina inclusa, moltiplicando portata e diffusione dei messaggi, dispiegando una capacità di influenza sull’agenda politica e sulla pubblica opinione. Una «macchina» di ridefinizione del dibattito pubblico di cui sono ben a conoscenza anche i governi.

Vice News ha scoperto l’esistenza di una campagna coordinata per prezzolare celebrità di TikTok affinché diffondessero messaggi pro-Cremlino.

Sul Washington Post è apparsa la notizia che, per la prima volta in assoluto su un tema di sicurezza nazionale, la Casa Bianca ha convocato trenta influencer per un briefing volto a fornire informazioni e chiarimenti sulla guerra e sugli obiettivi strategici degli Stati Uniti.

Orientare la guerra

Alla luce di tutto questo, tra i mille fattori che stanno orientando l’andamento di questa guerra, e in particolare gli sviluppi iniziali, sarebbe difficile non contemplare la comunicazione di Zelensky, soprattutto per il peso che ha esercitato sulle opinioni pubbliche occidentali.

Di che storia staremmo parlando se Zelensky fosse fuggito come il presidente afghano Ghani, o se comunque non avesse presidiato l’arena social e mediatica con l’efficacia che oggi gli riconosciamo?

La scelta di condividere bene o male il destino del popolo ucraino, restando a Kiev, ha generato, secondo lo storico Andrew J. Polsky, autore di più di un libro sui presidenti americani in tempo di guerra, «una relazione reciproca tra Zelensky e il popolo ucraino. Hanno acquisito energia e fiducia l’uno dagli altri».

Parlando agli ucraini, Zelensky interpreta così l’archetipo del “leader servitore” (“servitore del popolo” del resto non è solo il titolo della serie tv che lo ha consacrato, ma anche il nome del suo partito), che guida il paese nella sua resistenza attraverso l’esempio. Un leader in cui tutti possono identificarsi, che si veste come un comune soldato tra i soldati, indossando l’ormai iconica maglietta verde militare.

Secondo la politologa Olga Onuch, la ragione del successo della narrazione di Zelensky non risiede in una capacità di leadership che lo eleva e distingue dalla sua popolazione. Semmai, ciò che rende straordinaria la forza del suo messaggio in questa guerra proviene dal suo essere un ucraino come tanti, che incarna tratti diffusi nell’identità nazionale: lo spirito critico, la tendenza al dissenso, un senso di appartenenza civica e nazionale paradossalmente galvanizzato dalla pretesa russa di ricondurre l’Ucraina sotto la sua ala.

In questo senso, se l’archetipo che regge la narrazione di Putin è quello del sovrano guerriero, nel racconto di Zelensky le opinioni pubbliche occidentali hanno ritrovato invece l’uomo comune che, sorprese, scoprono credibile anche come eroe. Come in un film, di cui però Zelensky non è solo interprete, ma soprattutto sceneggiatore.

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