Abbiamo combattuto contro il lockdown, stiamo lottando contro la tirannia sanitaria […] e allo stesso tempo dobbiamo rispettare il sacrificio e lo sforzo del popolo serbo, delle persone come Miša, che sono andate di fronte al parlamento per dire chiaramente che o venivano rimossi lockdown e tirannia sanitaria, oppure scoppiava una rivoluzione».

Chi sta parlando è il leader di Forza Nuova Roberto Fiore, «Miša» è Miša Vacić, capo del partito ultra nazionalista Destra serba. L’occasione era il primo intervento alla conferenza “Nazioni d’Europa”, lo scorso 26 settembre, durante la quale diversi partiti neofascisti europei si sono riuniti nel centralissimo e lussuoso Hotel Moskva di Belgrado.

Solo due settimane più tardi, durante la manifestazione no green pass di Roma, Fiore avrebbe emulato l’assalto al parlamento della Serbia del luglio 2020 partecipando all’attacco contro la Cgil. Un’azione che gli è valsa l’arresto insieme ad altri esponenti di Forza Nuova.

Quanto alle proteste in Serbia citate da Fiore, va detto che queste furono sì innescate dall’intenzione di introdurre nuove misure anti Covid, ma che si trattò innanzitutto di una reazione all’autoritarismo crescente del presidente Aleksandar Vučić; inoltre, non è vero che il partito di Vacić vi prese parte.

La scusa del virus

La pubblicità che i neofascisti d’Europa stanno sfruttando attraverso le proteste contro il green pass si estende fino ai Balcani. E in particolare nel nord del Kosovo, fazzoletto di terra di quel paese indipendente dal 2008 e su cui Belgrado rivendica ancora la propria sovranità.

È qui che l’Alleanza per la pace e la libertà (Apf), cartello politico europeo che raggruppa diversi partiti di estrema destra, si dovrebbe incontrare. Condizionale d’obbligo perché il summit è stato solo annunciato su alcuni media, ma senza informazioni precise su data e luogo. È verosimile che nel frattempo l’arresto di Fiore, che è anche il presidente di Apf, abbia complicato l’organizzazione dell’evento.
Tra le complicazioni ci sono poi anche quelle di natura geopolitica, in un’area che da dopo la guerra è rimasta l’epicentro delle tensioni etniche tra Belgrado e Pristina. Il nord del Kosovo, a maggioranza serba, torna ciclicamente nel vortice dell’escalation. Gli ultimi episodi sono avvenuti tra settembre e ottobre scorsi: prima la cosiddetta “guerra di targhe”, quando le autorità kosovare hanno imposto ai veicoli serbi di utilizzare targhe prive di emblemi nazionali; poi un’operazione delle forze speciali di Pristina, che nei comuni del nord si è scontrata violentemente con la popolazione serba.
In questa regione, e in questo contesto, l’estremismo di destra rischia solo di alimentare ulteriormente il nazionalismo locale e rendere ancora più precario l’equilibrio delle relazioni tra Kosovo e Serbia.

Il Kosovo tra mitologia e neofascismo

Apparentemente insignificante, il Kosovo del nord, dove vive circa metà dei 100mila serbi rimasti nel paese, accentra su di sé gli sforzi del governo della Serbia nel tentativo di risolvere la questione della sua ormai ex provincia meridionale. Dopo la guerra del 1998-1999, culminata coi bombardamenti Nato e la dichiarazione unilaterale di indipendenza del 2008, Pristina ha avviato il proprio processo di autodeterminazione. Oltre 100 paesi ne riconoscono l’indipendenza, ma non Cina e Russia, alleati strategici di Belgrado, che ufficialmente però è anche candidata all’ingresso in Unione Europea.
Quello del Kosovo è un mito epico che nasce nel 1389, quando sulla Piana dei Merli l’esercito cristiano affronta l’avanzata dell’Impero ottomano in una battaglia divenuta poi emblematica per l’epopea del popolo serbo. Una battaglia che nei secoli si è fatta ideologica e politica, oltre che religiosa.

Ritenuta “il cuore della Serbia”, l’ex provincia autonoma ospita ancora diversi monasteri ortodossi che dalla fine della guerra incarnano sempre più la figura di bastioni del Cristianesimo che resistono all’invasione e all’occupazione islamica. O almeno questa è l’interpretazione dell’estrema destra europea della questione del Kosovo, su cui proiettano il proprio armamentario ideologico: nazionalismo, antiglobalismo, islamofobia.
Il mito del Kosovo è considerato parte imprescindibile della coscienza collettiva serba. E, relativamente all’ordine politico internazionale, la convinzione diffusa tra i circoli patriottardi è che Belgrado sia vittima di un ricatto inaccettabile: riconoscere l’indipendenza di Pristina in cambio del via libera definitivo per entrare in Ue.

Una logica che quindi contrappone interesse nazionale ad ambizioni euroatlantiche e che non può che schierare i neofascisti d’Europa al fianco del nazionalismo serbo. Con tanto di retorica vittimista e solidarietà ideologica. Di esempi in questa direzione ce ne sono diversi. Il più celebre – tra i serbi – è quello del francese Arnaud Gouillon, già candidato presidenziale nel 2012 col movimento di estrema destra Bloc identitaire: la sua fondazione, Solidarité Kosovo, destina da anni aiuti ai serbi delle enclavi.

Anche dall’Italia partono simili contingenti solidali. I più frequenti sono quelli di Una voce nel silenzio, associazione che raccoglie aiuti per le comunità cristiane «perseguitate per la loro fede» e il cui presidente onorario è Stefano Pavesi, consigliere leghista al municipio 8 di Milano ed esponente del movimento di estrema destra Lealtà azione.

Anche in questo caso, si tratta di azioni umanitarie viziate da ideologia: rispondono alla convinzione secondo cui la minoranza serba del Kosovo sarebbe vittima di pogrom sistematici per mano degli albanesi musulmani. Una realtà parziale, politicamente strumentalizzata e accompagnata dall’idea secondo la quale il piccolo paese balcanico sia prossimo a divenire un avamposto europeo dello Stato islamico.

In altre parole, il nazionalismo attorno alla questione del Kosovo racchiude in sé ragioni storiche che esaltano il mito di una nazione e il sacrificio di un territorio occupato da un esercito di fede islamica; la vittimizzazione di un popolo sottomesso con la forza dalla Nato prima, e dalla diplomazia UE poi; nonché l’idealizzazione di uno stato che rivendica la propria sovranità territoriale ergendosi a difensore della cristianità europea. Un mix ideologico che non può che suscitare l’ammirazione di quello spettro politico che da anni lamenta fantomatici progetti di sostituzione etnica, l’asservimento alle istituzioni internazionali e la distruzione delle radici cristiane europee.

Conseguenze geopolitiche?

E se fino ad oggi il processo di normalizzazione tra Belgrado e Pristina mediato dal 2013 dall’UE non ha fatto progressi è anche a causa della retorica nazionalista. O meglio: della sua manipolazione. Anche se i partiti e i movimenti estremisti come quello di Miša Vacić non partecipano al governo serbo, questi se ne serve per “il lavoro sporco”, quello delle iniziative più sceniche e che possono degenerare nello scontro con Pristina.

E lo scontro, anche se solamente diplomatico, ha lo scopo di preservare lo status quo sulla questione del Kosovo: non la fa progredire, facendola sembrare politicamente irrisolvibile. Una situazione di cui, paradossalmente, beneficiano entrambi i governi, perché li esonera dalle responsabilità storiche di una scelta netta e definitiva.

Dal canto suo, la retorica nazionalista traduce questo status quo geopolitico in slogan secchi e concisi impiegati nel linguaggio comune: come “il Kosovo è Serbia”, un mantra oltre il quale è impossibile dialogare.
La cassa di risonanza internazionale offerta dai neofascisti di mezza Europa aumenta quindi la polarizzazione della questione etnica del Kosovo, ricompattando i due opposti schieramenti. E se a questo si aggiunge l’eventualità che il summit dei neofascisti degeneri in un incidente diplomatico – possibilità da non escludere visto che metà dei partiti dell’Apf proviene da paesi che non riconoscono il Kosovo – il pretesto per un nuovo episodio dello scontro tra Belgrado e Pristina è servito.
 

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