La partita sul Quirinale riapre ferite mai davvero rimarginate, come quelle interne alla Lega. Chi vuole che Mario Draghi rimanga a palazzo Chigi coltiva la speranza che il premier completi il lavoro sul Piano nazionale di ripresa e resilienza ma anche quello di catalizzatore del cambiamento del sistema dei partiti: da quando Draghi è arrivato a palazzo Chigi in febbraio, si è dimesso il segretario del Pd Nicola Zingaretti teorico dell’alleanza strategica con i Cinque stelle ed è arrivato Enrico letta, che punta a un “campo largo” del centrosinistra che dialoga con i grillini da una posizione di forza; alla guida dei Cinque stelle Giuseppe Conte ha preso il posto del provvisorio Vito Crimi e sta portando il Movimento nella famiglia dei socialisti europei; Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia si limita a una opposizione “patriottica”, cioè innocua e almeno nei toni più moderata che in passato.

Resta la Lega, dove la leadership di Matteo Salvini vacilla ma regge: il progetto di espansione nazionale è saltato, non è mai riuscito a diventare davvero la guida del centrodestra, ha perso le elezioni amministrative, ha dovuto accettare le dimissioni del suo braccio destro Luca Morisi per una storia di droga forse penalmente irrilevante ma politicamente imbarazzante.

L’unico tassello che manca alla ristrutturazione del centrodestra in una chiave più moderata, europeista e digeribile all’estero in caso di vittoria alle prossime elezioni politiche è l’uscita di scena di Salvini. Il leader di Azione, Carlo Calenda, nella trasmissione di Bruno Vespa Porta a Porta lo ha detto martedì sera su Rai1: ancora un po’ di Draghi a palazzo Chigi e ci liberiamo anche di Salvini. O forse no?

La verità di Patuanelli 

Roberto Monaldo / LaPresse 16-11-2021

Nella stessa puntata di Porta a Porta c’era anche il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, Movimento Cinque stelle ma pragmatico uomo di governo da ormai tre anni, molto vicino a Giuseppe Conte. Con una franchezza finora inedita, Patuanelli ha avvertito che è pericoloso dare per Salvini per politicamente morto, perché nel 2019 ha preferito far cadere il governo Conte 1 piuttosto che vedere il suo rivale interno Giancarlo Giorgetti, oggi ministro dello Sviluppo economico, diventare commissario europeo.

Nessuno dei componenti di quella stagione di governo lo aveva mai detto con questa nettezza, e Patuanelli è titolato a saperlo perché era ministro dello Sviluppo del primo esecutivo a guida Conte. Queste le parole di Patuanelli: «Uno dei motivi per cui Slavini staccò la spina al Conte 1 fu che non voleva che Giorgetti andasse  fare il commissario europeo perché questo avrebbe spostato l’asse della Lega verso Giorgetti».

Nel grande racconto collettivo, quella crisi di governo è passata come se fosse il risultato di un impazzimento estivo di Salvini, dovuto al troppo sole, al timore delle inchieste giudiziarie sui finanziamenti russi e il blocco dei migranti in mare, all’eccesso di ego, o a un numero non congruo di aperitivi sulla spiaggia dello stabilimento Papeete di Milano Marittima.

Quasi che Salvini fosse impazzito all’improvviso, con la richiesta di avere non meglio precisati «pieni poteri» il 3 agosto 2019 dal Papeete che apre la crisi di governo e condanna la Lega a una temporanea irrilevanza, sorprendente per un partito che aveva appena ottenuto un consenso da record alle elezioni europee di fine maggio, 34,3 per cento.

Il senso della crisi 2019

LaPresse

Tutto un po’ assurdo, ma perfettamente sensato se si accetta la versione di Patuanelli: Salvini ha sacrificato il governo per salvare il partito, ha preferito rinunciare al posto di ministro dell’Interno piuttosto che veder messa in discussione la guida della Lega, cosa che secondo lui sarebbe stata inevitabile con la nomina di Giancarlo Giorgetti a commissario europeo.

Bisogna tornare a luglio 2019 per ricostruire una dinamica che non è storia, ma cronaca, perché potrebbe essere rivelatrice di quello che ci attende nelle settimane del Quirinale. Dopo le elezioni del maggio 2019, l’accordo dentro la maggioranza gialloverde è che il commissario europeo in quota italiana sarà un leghista: si fanno i nomi di Giancarlo Giorgetti e di Massimo Garavaglia, il portafoglio desiderato è quello della Concorrenza che decide sugli aiuti di stato (annoso problema per un paese che deve tenere in vita Ilva, Alitalia, e altri reperti industriali).

Nessuno fa il nome di Paolo Gentiloni, che è del Pd, e del portafoglio che poi otterremo, quello pesantissimo degli Affari economici e monetari. “Giorgetti cede al pressing: è lui il candidato dell’Italia come commissario europeo”, è per esempio il titolo della Stampa del 12 luglio 2019.

Lo schema di gioco prevede che la Lega rinneghi il suo recente passato sovranista, che peraltro l’ha portata a ottenere una marea di consensi alle elezioni di maggio, e voti la fiducia alla commissione europea guidata da Ursula von der Leyen assieme ai grandi partiti europei ed europeisti, Socialisti e Popolari, che in Italia significa Pd e Forza Italia.

Sembra tutto fatto, Salvini ha garantito l’impegno al premier Conte, ma il 16 luglio il colpo di scena: la Lega non vota Ursula von der Leyen, si riallinea con i sovranisti, la candidata alla presidenza ottiene comunque la maggioranza ma grazie ai voti decisivi del Movimento Cinque stelle.

Tanto che nel gergo politico italiano entrerà l’espressione “maggioranza Ursula” per indicare uno schieramento largo che però esclude la Lega di Salvini. La crisi del Conte I inizia in quel momento, il discorso del Papeete del 3 agosto e quello di Conte di accuse a Salvini in Senato il 20 sono soltanto il risultato della scelta di far saltare lo scambio tra voto di fiducia e poltrona europea per Giorgetti.

Mauro Scrobogna /LaPresse

Quello che è successo si capisce dalla chiave di lettura che offre a freddo l’allora come oggi ministro Patuanelli: Salvini ha capito che per arrivare a palazzo Chigi gli appoggi internazionali contano e che lui aveva scelto quelli sbagliati, tra Mosca, Varsavia e Praga.

Con Giorgetti a Bruxelles, il volto internazionale della Lega sarebbe diventato quello del suo vice: i precedenti indicano che un passaggio a Bruxelles è quasi sempre il viatico per un salto di carriera in patria, da Mario Monti a Romano Prodi a Franco Frattini fino al contemporaneo Paolo Gentiloni, premier incolore che da quando è commissario europeo è stato promosso al rango di riserva della Repubblica e addirittura possibile aspirante al Quirinale. L’intero progetto sovranista salviniano sarebbe finito in un attimo.

Ecco perché Salvini ha prima spinto le cose al punto di esporre Giorgetti come candidato ufficiale dell’Italia per poi farlo saltare, tenendo la Lega su posizioni sovraniste, anche a costo di far esplodere il governo Conte I e perdere la poltrona importante da ministro dell’Interno anti-migranti: una mossa assurda, se vista dalla prospettiva del potere nel paese, ma perfettamente razionale in chiave di competizione per la leadership interna alla Lega.

Salvini ha resistito altri due anni e mezzo anni al potere, Giorgetti ha dovuto attendere l’arrivo di Draghi per ottenere un’altra occasione, come ministro dello Sviluppo.

Il dilemma Draghi

Cecilia Fabiano/ LaPresse

La possibile scelta della Lega sul Quirinale ricorda molto da vicino quella su Ursula von der Leyen nel 2019, con gli stessi protagonisti e la stessa posta in gioco: questa volta Giorgetti può ambire, con poche possibilità, a fare il premier di un governo pre-elettorale dopo l’elezione di Draghi al Colle oppure, molto più concretamente, a diventare il candidato leghista alla guida della Lombardia, quando arriverà a scadenza il mandato del discusso (e indagato) Attilio Fontana nel 2023.

Tutto il potere di Giorgetti deriva dal suo radicamento in Lombardia, nel tessuto economico e finanziario che ha digerito Salvini senza mai amarlo.

Se Salvini spostasse la Lega definitivamente verso l’europeismo e la moderazione, con un voto a sostegno di Draghi al Quirinale, magari dopo qualche appoggio simbolico a Silvio Berlusconi nelle prime votazioni, sarebbe la vittoria finale della cultura del partito incarnata da Giorgetti. E il ciclo del “Capitano”, quello delle felpe, della “Bestia” social del fu Luca Morisi, delle smargiassate verso immigrati e spacciatori, sarebbe definitivamente concluso.

Chissà se anche questa volta Salvini sarà in grado di far saltare tutto pur di non perdere l’unica cosa che conta per lui: la Lega.

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