L’onda di destra alla fine non è arrivata, Torino rimane una città di centrosinistra perché le periferie non osano mettere la croce su Paolo Damilano e il suo schieramento, almeno non nella misura che si aspettava il candidato sostenuto dal centrodestra.

Il Pd Stefano Lo Russo ha recuperato l’enorme svantaggio iniziale, quando tra il centrosinistra e il moderatissimo imprenditore, molto voluto dalla Lega di governo, c’erano dieci punti di differenza e la città era data per persa. La strategia di Lo Russo è stata una campagna elettorale incentrata sul confronto vis à vis per strada: un paio di sedie messe nei mercati o nei giardini dei quartieri perduti nel 2016 e poi paziente ascolto.

Un messaggio fondato sul lavoro e la ricucitura tra capitale e lavoro, tra centro e periferia, poco focalizzato sulla trasformazione urbana degli ultimi vent’anni e sui suoi protagonisti storici. Solo qualche passeggiata con l’ex sindaco Sergio Chiamparino, qualche comparsata con Piero Fassino e poco più, il resto solo passaggi con i giovani, tra fabbriche, mercati e piazze. Lentamente il docente del Politecnico di Torino ha ricucito lo strappo del 2016 e si è spinto verso quota 42 per cento, due punti in più di Paolo Damilano, che solo due settimane fa spingeva forte sulla retorica della vittoria al primo turno, miseramente fallita.

La rimonta era attesa ma in pochi pensavano al sorpasso nel finale.

Recupero a sinistra

Il Partito democratico rimane stabile rispetto al 2016, intorno al 30 per cento, ma recupera voti alla sua sinistra, mentre la lista civica dei moderati, che ha imposto a Lo Russo la firma su un foglio in cui si esclude ogni alleanza con il M5s, si ferma poco sopra al 3 per cento.

«No all’apparentamento con il M5s ma un appello a tutti gli elettori», queste le prime dichiarazioni di Stefano Lo Russo, la cui vittoria al ballottaggio non è certa, nonostante il vantaggio.

Quindi non è prevista, al momento, una giunta con esponenti Cinque stelle, condizione da sempre esclusa dal partito di Giuseppe Conte.

Il M5s e i Verdi si sono spinti poco oltre intorno al 10 per cento, risultato minimo che tiene al centro dello scenario i pentastellati ma non evita un crollo clamoroso: rispetto al 2016 i voti persi al primo turno potrebbero essere sessantamila. Al di là della figura di Valentina Sganga, candidata sindaca giunta alla fine di un percorso politico caotico e conflittuale nel suo partito, il voto è sull’operato della sindaca uscente Chiara Appendino, che esce di scena con un risultato modesto ma non ininfluente.

La sindaca in carica per ancora due settimane ha dilapidato il consenso soprattutto dove aveva imposto il suo messaggio di classe: «A Torino ci sono i ricchi, ci sono i poveri, io sto con questi ultimi».

La composizione elettorale del M5s attuale è un mistero: i quartieri dove doveva tenere hanno incoronato l’astensione e in misura minore Lega e Fratelli d’Italia, nonostante la candidata sindaca Sganga abbia più volte dichiarato in campagna elettorale di essere progressista, ecologista e soprattutto di non poter votare Damilano e il centrodestra per ragioni politiche e morali.

Sganga, una politica tignosa, non ha un potere reale, dato che la struttura del partito ruota intorno alla figura di Chiara Appendino e della sua fortissima presa sui social dove conta migliaia di seguaci torinesi.

Come è noto, Appendino non accetta la vittoria di Lo Russo, anche per ragioni personali legate alla denuncia sul caso Ream che quest’ultimo presentò, costato alla sindaca un condanna a sei mesi.

Resistenza al Pd

Tra le due cinque stelle, Sganga e Appendino, per molti aspetti il clone l’una dell'altra, si frappongono varie figure che hanno voce in capitolo: i parlamentari, il presidente Conte, Grillo. Un potpourri anarchico, ma sbilanciato sulla resistenza a oltranza contro il Partito democratico.

Laura Castelli, potente sottosegretaria nel governo Draghi, è sulla linea Appendino, e con lei quasi tutti gli altri parlamentari. Per evitare scontri interni, in un partito già sufficientemente balcanizzato, potrebbe esserci una votazione online tra gli iscritti.

Sganga ieri sera ha dato surrettiziamente un prima indicazione: «Andate a votare per chi si impegna per i nostri temi: giovani, periferie, mobilità verde», cioè il Partito democratico. Posizione già sbilanciata, almeno per le sensibilità attuali del suo partito.

In alto, sopra tutti, la figura di Conte, che a Torino ha escluso ogni sostegno al secondo turno, scaricando su Lo Russo la responsabilità del mancato apparentamento al primo turno.

Scelta che ha premiato il candidato di centrosinistra che in molti, anche nel suo partito, davano per spacciato, troppo freddo, e in fondo, accusa più sanguinosa, «di destra». Alla fine il “secchione”, come ribattezzato infelicemente dal segretario Pd Letta, ha tenuto ed è avanzato.

Qualora il M5s si dividesse a metà, Lo Russo avrebbe un margine di vantaggio anche al secondo turno perché i voti dello storico Angelo d’Orsi candidato dalla sinistra radicale e fermo poco sopra il 2 per cento, con ogni probabilità convergeranno sul candidato di centrosinistra. Paolo Damilano invece non ha nulla da recuperare, se non i voti, aleatori, di destra dei pentastellati: ha preso tutto quanto poteva, nonostante una campagna elettorale all’insegna della grandeur, economicamente larga, lontana dalle figure ingombranti, e nazionali, della sua coalizione, in cui ha tentato di mettere insieme la borghesia del centro città e il voto delle periferie, che però hanno preferito l’astensione di massa.

Non c’è riuscito: il centro della città è rimasto saldamente in mano al centrosinistra.

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