Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci della relazione della Commissione parlamentare Antimafia della XVII Legislatura, presieduta da Rosy Bindi per capire di più il ruolo delle logge massoniche negli eventi più sanguinari della storia repubblicana


L’analisi condotta nelle pagine precedenti non consente di affermare che la mafia e la massoneria siano un unicum né che -come disse, alla fine dell’Ottocento, il deputato Felice Cavallotti- “non tutti i massoni sono delinquenti ma tutti i delinquenti sono massoni”.

Gli esiti dell’inchiesta parlamentare, tuttavia, hanno evidenziato gravi elementi di criticità e, dunque, di incompatibilità, in seno all’ordinamento giuridico, tra talune forme associative -o, meglio, tra l’estrinsecarsi di talune forme associative- e lo Stato democratico.

Per quanto concerne la prospettiva di questa Commissione, è emerso che la mafia -o, comunque, le sue più pericolose espressioni rappresentate da Cosa nostra siciliana e dalla ‘ndrangheta calabrese- da tempo immemorabile e costantemente fino ai nostri giorni, nutrono e coltivano un accentuato interesse nei confronti della massoneria.

Ma se le associazioni mafiose sono quelle descritte dal comma 3 dell’art. 416-bis del c.p., e cioè le consorterie criminali dirette ad “acquisire (..) la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici” e “a impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o altri in occasione di consultazioni elettorali”, non può che ricavarsi, di conseguenza, che la mafia individua nella massoneria uno strumento che le permette di raggiungere le finalità descritte dalla norma che la definisce. E, ciò anche perché, come si è detto, rappresenta il luogo di dialogo, diretto e solidale, con l’aristocrazia delle professioni. Il luogo privilegiato dove trattare affari, ottenere incarichi, pilotare appalti e, talvolta, “aggiustare” i processi.

Ciò nonostante, dalla parte delle associazioni massoniche, si è registrata una sorta di arrendevolezza nei confronti della mafia, né potrebbe essere diversamente data la costanza e la reiterazione nel tempo del fenomeno infiltrativo.

Ma, se la ratio dell’ingresso della mafia nella massoneria si coglie, come detto, nell’essenza stessa dei suoi scopi così come descritti nell’art. 416-bis cit., il fenomeno inverso -l’accoglienza della massoneria nei confronti della mafia- non può giustificarsi attraverso le finalità statutarie, di ben altra natura rispetto a quelle mafiose, perseguite dalle associazioni massoniche ufficiali.

È nella posizione assunta da determinati fratelli o da gruppi di fratelli, più o meno numerosi, che può essere ricercata la ragione dell’incontro con il mondo mafioso, ma ovviamente, in tal caso, potrebbero individuarsi interessi o atteggiamenti diversificati, difficili da aggregare sotto un unico comune denominatore.

Può nondimeno affermarsi che qualora il massone sia, al contempo, un mafioso, come non di rado è accaduto, si realizza una coincidenza di appartenenza e, dunque, di intenti nel senso che il programma criminale mafioso intraprende la sua realizzazione (anche) nei gangli massonici.

Si può anche registrare l’intersezione dei diversi intenti (come, ad esempio, potrebbe accadere in occasione di elezioni massoniche per cariche autorevoli, peraltro lautamente retribuite, in cui la mafia può ben assicurare un certo numero di voti) che, dunque, si traduce in una reciproca convenienza, peraltro ipotizzata dagli stessi appartenenti alla massoneria.

Sono tuttavia i casi, certamente più ricorrenti, in cui si riscontra una forma di mera tolleranza -frutto di un generalizzato negazionismo dell’infiltrazione mafiosa (magari volto a salvaguardare il prestigio internazionale dell’associazione massonica o le sue fondamentali regole di segretezza), e a sua volta, causa di carenze in termini di prevenzione- che, paradossalmente, si rivelano più preoccupanti.

Ed invero, l’ordinamento giuridico, che ben dispone di strumenti in grado di prevenire e di reprimere le deviazioni e i patti intercorsi con le mafie, -e dunque la duplice appartenenza e la convenienza- non gode di altrettanti mezzi nel caso della tolleranza, cioè in assenza di fatti penalmente rilevanti dal lato massonico e, pertanto, assiste inerme ad un fenomeno che, benché necessariamente generato dall’incontro tra due entità, consapevole una e più o meno inconsapevole l’altra, può essere impedito solo per metà.

Tale pericolosa tolleranza si realizza, in primo luogo, laddove, nonostante il continuo allarme di inquirenti, giuristi, storici e organi di stampa, non sono state ancora assunte dalla massoneria ufficiale determinazioni ferme e definitive volte a rendersi impermeabile rispetto agli interessi criminali.

Si è già evidenziato, infatti, che nonostante la consapevolezza dei rischi, il sistema dei controlli massonici si è rivelato spesso inefficace, e ciò non tanto per la carenza di strumenti, come si è pure obiettato, ma soprattutto per la mancanza di volontà in tal senso. Ed invero, quando le infiltrazioni malavitose sono state accertate a livello organizzativo la scelta dello scioglimento delle logge non ha impedito, anzi ha favorito, il transito dei membri in altre articolazioni della medesima obbedienza. Allo stesso modo, le accorate segnalazioni dei fratelli più avveduti si sono risolte nell’espulsione di costoro. Le sentenze penali di condanna per fatti di mafia, a loro volta, sono rimaste spesso ignorate dalle obbedienze massoniche che non hanno riconosciuto in esse la segnalazione di un pericolo.

Al contempo, come si è constatato in diverse occasioni, non state adottate posizioni di netta collaborazione massonica, rivelatrici di una convergenza di scopi, con le Autorità impegnate nella repressione del fenomeno. Questa Commissione è diretta testimone di tale atteggiamento, verificato tanto nel corso delle reticenti audizioni, tanto nel rifiuto di consegna degli elenchi. Ma ne sono testimoni altresì i membri della loggia “Araba Fenice” che si dimisero per protestare contro l’espulsione di un fratello reo di avere collaborato con la Digos.

La tolleranza si riscontra altresì nella miope ostinazione della massoneria a mantenere, nonostante quanto la storia italiana ci abbia insegnato, quelle caratteristiche strutturali e organizzative, del tutto similari a quelle della mafia, che, nella loro concreta attuazione, ben valicante ogni innocuo rituale, si pongono quali fonti di alimentazione per la creazione, in ambito massonico, di un humus particolarmente fertile per la coltivazione degli interessi mafiosi.

Tra queste, va segnalato soprattutto il dovere di segretezza, su cui è improntato l’associazionismo massonico, con tutti i suoi corollari dei vincoli gerarchici e di fratellanza, della legge e della giustizia massoniche intese come ordinamento separato da quello dello Stato e prevalente rispetto a quest’ultimo.

Con grande evidenza è emerso un segreto interno, già di per sé inconcepibile in uno Stato democratico, a cui fa eco, soprattutto, quello esterno, anche verso le pubbliche Autorità.

Nemmeno con il provvedimento di sequestro, per citare solo uno dei tanti esempi riportati, è stato possibile venire in possesso degli elenchi effettivi degli iscritti perché presso le sedi ufficiali forse neanche ci sono e, comunque, quelli che ci sono non consentono di conoscere un’alta percentuale di iscritti rimasti occulti grazie a generalità incomplete, inesistenti o nemmeno riportate.

Il vincolo di solidarietà tra fratelli, a sua volta, consente, perfino, come visto in uno dei casi di estrema gravità affrontati, il dialogo tra esponenti mafiosi e chi amministra la giustizia; dialogo che non solo legittima richieste di intervento per mutare il corso dei processi, ma impone il silenzio di chi quelle richieste riceve.

La prevalenza dell’ordinamento massonico, ancora, impedisce allo Stato la conoscenza perfino dei reati consumati nonché il controllo dell’applicazione delle proprie leggi sui dipendenti pubblici; consente lo spregio delle regole e dei doveri civici da parte dei massoni con l’assoluzione preventiva del cerimoniere il quale garantisce che l’osservanza delle norme interne include automaticamente quella delle altre; toglie la parola agli assessori comunali, seppure impegnati nelle terre martoriate dalla mafia, per farne muti servitori della massoneria.

I vincoli di obbedienza gerarchica, di converso, inducono al silenzio anche sulle infiltrazioni della mafia perché altrimenti, come è accaduto, si offende implicitamente la dirigenza massonica, che tutto vede e tutto fa, di non aver visto e di non aver fatto nulla.

Tuttavia è proprio il segreto, con tutte le sue appendici, che consente, peraltro “fisiologicamente”, l’incontro tra le due formazioni, una illecita e l’altra lecita, al di fuori di qualunque controllo esterno e, per di più, con la parvenza della liceità (ricavabile dalla collocazione della massoneria tra le associazioni previste dall’ art. 36 del c.c. tutelate, dunque, dall’art. 18 della Cost.), così dando luogo ad una zona grigia della quale ben poco è dato sapere.

Ma vi è di più. Se, da un lato, i singoli massoni sono menomati nella libertà di esternare la zona grigia, dall’altro lato, viene a crearsi, l’asservimento, anche rispetto a fini non massonici o addirittura mafiosi, pure da parte di coloro che, essendo chiamati a svolgere funzioni al servizio dello Stato, devono improntare le loro condotte all’assoluta trasparenza e all’incondizionata lealtà verso le Istituzioni.

© Riproduzione riservata