Atp Finals, ancora Sinner in finale: e può diventare un problema

TORINO – Venti secondi di Ligabue hanno scosso gli animi più di un’ora e mezza di Jannik Sinner. Trattasi, ovviamente, di un’esagerazione, di un’iperbole. Ma che può servire a definire quello che per il tennis può diventare un problema, ammesso che non lo sia già. Mentre le Finals volgono al termine (la finale andrà in scena domenica 16 novembre alle 18) il succo del discorso è Sinner. Ciò che viene prima o al di là di lui è un lungo percorso di riscaldamento. Sempre. Perfino il pubblico torinese, che adora l’altoatesino, dopo cinque anni di Finals non ha elaborato null’altro che il coro classico Sin-ner Sin-ner a fine match in tutti gli incontri che il rosso ha disputato. Non che l’amore sia venuto meno, ma lo scuotimento dell’anima è un’altra cosa. Se sai prima che il malcapitato Alex De Minaur (e gli altri prima di lui) sputerà sangue in campo ma al massimo riuscirà a sopravvivere fino alla fine del primo set, sei destinato ad assistere a una sorta di lussuosissima esibizione di superiorità. Che certo conforta i tifosi, ma è priva di quell’incertezza che è il condimento di ogni competizione. E le anime poi lo cercano altrove uno spiraglio da cui trarre linfa vitale: basta che Ligabue sia presente in tribuna e che il deejay se ne accorga per far balzare tutti dalla sedia a urlare contro il cielo. Se conta solo il ranking Atp: nessuna rivoluzione salverà la Coppa Davis Effetto Duplantis Non che Sinner abbia qualche colpa, sia chiaro. Ha preso a randellate il miglior De Minaur di sempre (per almeno un set) portando il parziale fra i due sul 13-0 a suo favore (risultato finale 7-5, 6-2). Ha raggiunto la terza finale di fila alla Finals senza perdere nemmeno un set. È il Duplantis del tennis, nel senso che ci sono anche altri che saltano con l’asta, ma è come se prendessero parte a una gara a parte. E poi quell’asticella che viene posizionata sempre più in alto costringe Mondo a urlare davvero contro il cielo quando tenta di conquistarne un altro centimetro. L’asticella di Jannik è Carlos Alcaraz (che in serata ha battuto per 6-2 6-4 Auger-Aliassime e ha raggiunto l’italiano in finale) e meno male che c’è intanto perché l’asticellitudine è reciproca e poi perché almeno arriva sempre un giorno in cui quei due si incontreranno e daranno un senso al tutto. E nel mezzo ci sono momenti, come le tre ore del match fra Lorenzo Musetti e De Minaur, che fanno da trait d’union fra il passato e il presente, che riportano sulla terra quel senso della sorpresa che è l’innesco dell’entusiasmo. Che ti fanno perfino accettare che il tuo poulain possa perdere; ma dopo essere arrivato vicino alla vetta. Si vince con occhi e orecchie: se le Atp Finals diventano laboratorio del super tennista Rischio ripetitività Jannik non ha colpa, si diceva. Lo hanno disegnato così come la Jessica Rabbit con cui condivide la lettera iniziale del nome. Annichilisce gli avversari perché quando qualcuno osa tirare sulla riga di fondo della sua parte di campo lui di rimando colpisce la riga del campo opposto ma con più profondità. La stessa cura cui Alcaraz ha sottoposto lui nella finale di Parigi, sul finire del quinto set. Ma oggi nessun altro, se il nostro non ha la bua, può osare tanto. Donne e uomini di tennis sanno benissimo che, al di là del tifo di campanile, è proprio questo che può diventare un problema. Un pas à deux che dura tutto l’anno e per più anni senza che qualcuno riesca a interromperlo diventerebbe un minus più che un plus; ci metterebbe poco ad ammalarsi di ripetitività. Se Bruce Springsteen chiude i concerti con Thunder Road e Born to run è perché sono l’apice della comunione spiritual-musicale che lo accomuna alla sua gente; ma succede ogni tot anni. Se l’intero circus tennistico dovesse poggiare esclusivamente su una rivalità non sarebbe una fortuna, ma un limite. Diciamolo affinché nessuno si risenta: Sinner ha battuto De Minaur, è in finale, evviva Sinner. Ma sarà meglio che Joao Fonseca perda qualche chilo e metta su qualche muscolo, che Musetti diventi più cattivo, che il giovane (18 anni) svizzero Henry Bernet decida di seguire le tracce dei suoi due enormi connazionali Stan Wawrinka e Roger Federer perché c’è bisogno come il pane di sfidanti che cerchino di scalzare i dittatori del regno. E ne hanno bisogno pure gli spettatori che vogliono (e vogliono e vogliono) riprovare quella sensazione che ti fa saltare sulla sedia, quella che hanno provato quando Rafael Nadal ha vinto a Melbourne tenendo assieme le ginocchia col nastro adesivo, quando Federer ha perso Wimbledon sbagliando in un solo game più colpi di tutta la sua vita. L’assuefazione è sempre un pericolo che si annida dietro l’angolo e prevenire è meglio che curare. Non foss’altro perché chi guarda lo sport e il tennis in particolare cova sempre dentro di sé la speranza di poter entrare in quella fase emotiva in cui non si assiste solo ad uno spettacolo ma si urla davvero. Se non contro almeno verso il cielo. Tennis, Sinner rinuncia alla Davis: ora il movimento italiano dimostri davvero di essere grande