Chiamiamo le cose con il loro nome: anche l’inerzia del Coni

Non è “raptus”, ma sessismo: le parole con cui il calcio si assolve

Mario Hermoso, difensore della Roma. La scorsa settimana Michael Folorunsho, del Cagliari, ha insultato sua madre in campo (e in diretta tv), ma non ha ricevuto sanzioni (FOTO ANSA)
Mario Hermoso, difensore della Roma. La scorsa settimana Michael Folorunsho, del Cagliari, ha insultato sua madre in campo (e in diretta tv), ma non ha ricevuto sanzioni (FOTO ANSA)
Mario Hermoso, difensore della Roma. La scorsa settimana Michael Folorunsho, del Cagliari, ha insultato sua madre in campo (e in diretta tv), ma non ha ricevuto sanzioni (FOTO ANSA)

Sul caso degli insulti sessisti di Folorunsho ha prevalso la narrazione patriarcale che trasforma la ferocia in foga competitiva, l’offesa in folklore. La rimozione del procuratore che ha chiesto il deferimento del presidente della Federazione sport invernali paralimpici Tavian, accusato dai dipendenti di decenni di vessazioni e minacce, è la prova che nella giustizia sportiva qualcosa non funziona

Non chiamatelo raptus, nemmeno in campo! Per la gravità dei fatti la trama che li unisce, più che da un filo rosso, sembra tessuta da una catena culturale dalle maglie grosse e pesanti. Cos’hanno in comune gli insulti sessisti di Folorunsho (liquidati come semplice effetto collaterale dell’agonismo spinto) con le parole del ministro Carlo Nordio (che evoca il dna a spiegazione scientifica della resistenza maschile verso l’emancipazione femminile) e, ancora, l’esternazione della ministra Eugenia

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