Juventus-Torino, il derby degli insoddisfatti: Elkann e Cairo senza ambizioni sportive

Guadagnassero dai diritti dei cori delle curve, agli autori (e loro eredi) di certi brani arriverebbero ulteriori denari a palate. Oggi, per dire, la colonna sonora del derby di Torino numero 211, allo Stadium, a intervalli regolari sarà il ritmo di Sway, un pezzo di Dean Martin che ha una sessantina d’anni e che Micheal Bublé ripubblicò nel 2003: al canonico «Urbano Cairo devi vendere, vattene, vattene», dal settore granata, i tifosi bianconeri risponderanno in maniera uguale e contraria, con lo stesso coro e il medesimo protagonista, dal valore opposto, ovvero «Urbano Cairo dai non vendere, resta qui, resta qui». È il gioco delle parti, in questo senso la parte divertente del tifo. Eppure, a grattare la superficie, Juventus-Torino è anche e soprattutto un derby tra due squadre le cui tifoserie, ormai, dei rispettivi proprietari, non ne possono più. San Siro in silenzio, la difficile mediazione tra ultras in “sciopero” e società L’insoddisfazione Già, perché se l’insoddisfazione degli appassionati granata nei confronti di Cairo è sin troppo evidente, a ben guardare non è che la disaffezione degli juventini nei confronti di John Elkann, che ha le chiavi di Exor, azionista di maggioranza del club bianconero, sia meno chiara. Nelle differenze, tante, il punto in comune è quello dello scontento, in entrambi i casi arrivato forse ora al punto di non ritorno. A livello di campo, i risultati incidono sull’umore: Torino, intesa come città di calcio, dal post-Covid non tocca palla. Inter, Milan, persino il Napoli due volte: lo scudetto finisce quasi ovunque, ma non più alla Juventus elkanniana il cui obiettivo massimo è diventato il quarto posto (che, peraltro, viene festeggiato come una conquista), mentre i granata faticano a farsi una ragione del perché l’Atalanta ormai possa essere annoverata con pieno merito e grande continuità tra le più forti, o il Bologna sia riuscito ad arrivare in Champions e a vincere pure una Coppa Italia una vita dopo l’ultima volta, e il Torino no. E, anzi, in classifica la costante è finire sempre dietro anche a Lazio, Roma e Fiorentina (ecco, in quest’ultimo caso, forse in questa stagione no), e di volta in volta pure alle spalle di un’Udinese, di un Sassuolo, di chissà chi altro. I risultati, tuttavia, sono solo una parte del problema, essendo il riflesso – per quanto non sempre preciso – di politiche proprietarie che mancano di due aspetti fondamentali, vale a dire una reale ambizione e l’orgoglio dell’appartenenza, e si scontrano, nel percepito, con il paradosso di un racconto mediatico fasullo ed eccessivamente entusiastico, quando non sarebbe proprio il caso. Fontana resta al Corriere, Cairo non cambia fino alle elezioni L’epoca Cairo Qui, allora, vale la pena di andare un po’ più a fondo. Cairo acquistò il Torino nel settembre 2005, in B, vent’anni fa insomma: tornò subito in A, investì, sbagliò, ricadde in B e riuscì a riprendersi la massima serie dopo tre anni. Da allora è sempre rimasto in A, con qualche sussulto nelle stagioni 2013-14 e 2018-19, quando riuscì a guadagnarsi la qualificazione al girone di Europa League nel primo caso (ma accadde, a onor del vero, perché il Parma non ottenne la licenza Uefa) e ai preliminari al secondo. Per il resto, mediocrità assortita, nemmeno troppo aurea: al patron i tifosi granata non perdonano investimenti che, più o meno da una decina d’anni, languono, e la strategia che porta alla vendita dei migliori anno dopo anno (giusto per pescare alcuni nomi dal mucchio: Ogbonna, Bremer, Buongiorno, Bellanova), sostituiti con scommesse che a volte si azzeccano, ma più spesso no. E se è vero che il Torino non ha mai avuto problemi di continuità aziendale negli ultimi due decenni – un aspetto non banale considerando i guai dei vent’anni precedenti – tenendo pure i conti in ordine, tutti aspetti dei quali va dato atto a Cairo, è vero altresì che il club granata, oggi e ormai da troppo tempo, è uno dei tanti, uno di quelli che fa mucchio, e per chi ha una storia come quella del Toro, è abbastanza deprimente. Un dato di fatto che fa poi a pugni con la grancassa mediatica dell’editore Cairo, sulle testate che contano, con paginate di totale irrilevanza nelle quali spicca una narrazione da mondo parallelo, troppo insulsa per essere presa sul serio, dove la contestazione stessa del tifo, sostanzialmente, non esiste, e se le cose non funzionano, la colpa è sempre di qualcun altro. C’era una volta l’identità Juve: il problema non è l’allenatore, l’esonero di Tudor lo certifica La fine del connubio Agnelli-Juve Per questo la curva bianconera irride il fu Torino. Irride ma non ride, non può, perché anch’essa vive di estemporanei entusiasmi – l’arrivo di Spalletti, per esempio, ha generato attese a ben guardare eccessive allo stato dell’arte – che si intervallano a una quotidianità che, per un club come la Juventus, è avvilente. Avrà anche parlato ai giocatori mettendoci direttamente la faccia qualche giorno fa, si metterà pure la maglia a favor di telecamera quando serve e, sicuramente, non sta facendo mancare iniezioni di capitale (un miliardo bruciato nell’ultimo decennio), ma John Elkann non è esattamente il proprietario di cui, oggi, necessiterebbe la Juventus. Dopo centodue anni di connubio tra la famiglia Agnelli e il club, si può ragionevolmente affermare che la proprietà sia stata, insieme, la grande fortuna e il limite del club, un’assicurazione sulla vita e sulla competitività che, però, oggi non è garantita. Spalletti alla Juventus, il mondo al contrario. Sperando non finisca come Nietzsche Dopo l’uscita di Andrea Agnelli, l’ultimo presidente bianconero con una visione internazionale e contemporanea, ma un atteggiamento sfrontato e folle, al punto di avere trascinato il club nella sua battaglia – persa – contro la Uefa, con la conseguenza che oggi la Juventus non conta pressoché nulla dal punto di vista istituzionale, il club pare tornato al periodo post Calciopoli, quello depotenziato dello “smile” del fratello di John, Lapo, la Juve nemmeno antipatica perché innocua, cornuta (per scelte borderline) e mazziata (dai tribunali), incapace di difendere la propria reputazione o poco interessata a farlo, perché dopo lo scontro con le istituzioni, la normalizzazione da parte di chi tiene le redini non è indolore. Del resto il club è appena uno dei tanti interessi aziendali di Elkann, non certo il primo né il più rilevante, per quanto sia quello emotivamente più significativo, non tanto per il nipote dell’Avvocato, quanto per milioni di appassionati bianconeri. Va rilevato, inoltre, che in una A nella quale la maggior parte delle proprietà è straniera, quelle di Juventus e Torino sono ancora italiane – sebbene Exor sia olandese, e ragioni ormai come un fondo – e, forse anche per questo, sono fuori tempo massimo, perché il calcio italiano oggi è periferia dell’impero: per competere a livelli assoluti e mantenere una certa immagine è necessario ampliare gli orizzonti, cambiare passo. L’ipocrisia della Fifa: combatte la Superlega europea, ma ne approva una in Oceania. E quella africana è sparita dai radar Così se oggi, giorno di derby, chiedeste a gran parte dei tifosi juventini o torinisti se gradirebbero una proprietà diversa, probabilmente ci sarebbe un plebiscito di sì, scegliendo l’incerto, al cospetto di un certo che non scalda più i cuori, vissuto come distante e poco ambizioso. Per cambiare, però, servono un venditore – condizione fondamentale – e un compratore, e in entrambi i casi attualmente il primo non c’è. Ma fino a quando?