Rassegnatevi, LeBron James si è guadagnato il diritto di calpestare i nostri sentimenti

Pensavamo, in fondo non ci credevamo, forse addirittura temevamo fosse un ritiro. E invece era una pubblicità. LeBron James ha deciso che le voci su un suo possibile, imminente, addio al basket giocato fossero un’ottima occasione per promuovere la sua collaborazione con il marchio di cognac Hennessey. Visualizza questo post su Instagram Un post condiviso da Hennessy (@hennessy) Così, con un video postato sui social ha annunciato in pompa magna di essere pronto a prendere la sua «seconda decisione». La prima l’aveva presa quindici anni fa quando aveva deciso di lasciare i Cleveland Cavaliers, la squadra dove aveva trascorso sette anni della sua vita, per trasferirsi ai Miami Heat. E la seconda? Il prossimo 30 dicembre James compirà 41 anni. I Los Angeles Lakers, franchigia per cui gioca dal 2018, hanno acquistato Luka Dončić e sembrano ave già avviato le pratiche per la successione. Quella di trovarsi davanti a uno schermo nero dove scorrono i titoli di coda di una carriera straordinaria era più di una semplice impressione. Così in molti hanno immaginato che, come accaduto con Kobe Bryant e la sua lettera d’amore al basket, pubblicata nel novembre del 2015 all’inizio dell’ultima stagione con la maglia gialloviola, anche James volesse congedarsi dal suo pubblico concedendosi un lungo tour d’addio da 82 partite di regular season più eventuali playoff. In realtà qualcuno, forse più informato di altri, aveva messo in guardia dalla possibilità che si trattasse solo di un’operazione di marketing. Ma i sentimenti sono cosa troppo seria per essere sporcati dal marketing. E un “re” non ha certo bisogno di questi trucchetti. Così tra l’ansia e la paura, tifosi e non sono rimasti in trepidante attesa fino al tardo pomeriggio di martedì 7 ottobre, quando la «seconda decisione» è stata svelata: niente ritiro, non ora. Vergogna. Come il più crudele dei monarchi, James si è preso gioco dei suoi sudditi. Che certo tirano un sospiro di sollievo rispetto all’idea di non vederlo più correre su un parquet. Ma che modi. Così non si fa. Il magnifico tramonto di LeBron James Calpestare i sentimenti Sarà, ma l’impressione è che, come spesso accade, il problema sia negli occhi di chi guarda. In quell’idea che un giocatore come James, che nella vita non ha veramente più niente da dimostrare, giunto alla soglia dei 41 anni, debba per forza appendere le scarpette al chiodo. Che per lui annunciare un ritiro sia, in fondo, più consono, e forse più naturale, che siglare un contratto milionario con una marca di cognac. C’è sempre un filo di tristezza e nostalgia, soprattutto in chi coltiva la passione per uno sport, quando un grande campione si trova a dover fare i conti con l’esperienza del limite che accompagna ogni vita umana. Spesso è limite di natura fisica. L’impossibilità di affrontare giocatori più giovani, di correre come loro, di non riuscire a compensare con il talento una distanza che sembra ampliarsi col passare degli anni. E le vittorie si fanno più rarefatte. Ma è un problema nostro. Di tifosi che hanno goduto della gloria dei Goat (i “più grandi di tutti i tempi”) e mal sopportano l’idea di doversi misurare con il gusto amaro della sconfitta. Eppure, in quell’essere tra i greatest of all time c’è anche la libertà, guadagnata sul campo, di poter decidere quando uscire di scena. Di ritirarsi e poi tornare, e poi ritirarsi nuovamente. Di smettere giovani, per noia. O “vecchi”, per la testarda convinzione di poter ancora fare la differenza. Basket italiano in rivolta. Lo sciopero delle curve contro le nuove regole Nessuno, parlando di Roger Federer, ricorderà l’umiliante sconfitta rimediata nel 2018 per mano dell’australiano John Millman negli ottavi degli Us Open. Oppure degli ultimi anni di Michael Jordan con la maglia degli Washington Wizards. O di Alessandro Del Piero e Francesco Totti relegati al ruolo di comprimari nelle squadre che hanno contribuito a fare grandi. Gli eroi, direbbe Francesco Guccini, son sempre «tutti giovani e belli». Nell’ottobre del 1993, dopo l’assassinio del padre, Jordan annunciava l’addio al basket e ai Chicago Bulls. Nessuno sembrava poter rivaleggiare con lui in grandezza e in fama. Sarebbe tornato a giocare nel 1995 arricchendo la sua epopea di nuove imprese. Ma in quel 6 ottobre di 32 anni fa (casualmente un giorno prima della «seconda decisione» di LeBron) il patron dei Chicago Bulls, Jerry Reinsdorf, introducendo la conferenza stampa, aveva detto: «Qualcuno che rispetto e ammiro sta facendo esattamente quello che vuole fare e penso sia la cosa giusta. Sta vivendo il sogno americano. Il sogno americano è raggiungere un punto della tua vita in cui non devi fare niente che non vuoi fare». Nemmeno ritirarti, se non lo vuoi. Il capitalismo comunista della NBA: distribuire le vittorie per fare più soldi