Fuori dai Mondiali, ma la svolta delle Filippine passa dal metodo e non dalle vittorie

Il punto esatto è una palla corta respinta a muro e la vibrazione di un’arena intera: le Filippine hanno battuto l’Egitto 3-1. È la prima vittoria di sempre ai Mondiali per la nazionale maschile. Un “prima” che diventa svolta: per il gruppo, per la federazione, per un pubblico che fino a ieri associava la parola “volley” soprattutto al movimento femminile. Quel successo non ha portato agli ottavi, ma ha consegnato un’immagine nuova: una nazionale che sa stare in partita, reggere la pressione, vincere quando conta. Non è un lampo isolato. L’innesco va cercato un anno prima, con la scelta di affidare la squadra ad Angiolino Frigoni, tecnico italiano di lungo corso, chiamato dalla Pnvf nel giugno 2024. Curriculum pieno, approccio metodico, periodizzazione degli allenamenti, standard tecnici internazionali, disciplina quotidiana. Fin dal primo giorno Frigoni ripete un concetto semplice: «Servono anni, non mesi». La squadra, intanto, impara a riconoscere i propri tempi: le sedute si allungano, i dettagli contano, il lavoro fisico si integra al tattico. È il vocabolario del volley globale trasferito in un contesto che ne aveva bisogno. L’equilibrio tra fiducia e arroganza: la leadership gentile di Velasco Telaio importante Sul piano strutturale il passo avanti si chiama Volleyball Empowerment: il programma Fivb che fornisce coaching support, know-how, coordinamento dei calendari e leve per la crescita. È il telaio che sostiene la svolta tecnica: staff più strutturato, raduni programmati, finestre concordate con i club, un bacino più largo che guarda anche ai filippini all’estero. E proprio la Fivb, nei report del torneo, lega il «giorno della prima volta» con l’Egitto al percorso di queste nazionali sostenute dall’Empowerment: segnale che l’investimento non è teorico, ma visibile sul campo. Il Mondiale in casa – assegnato nel 2024, due arene nell’area metropolitana di Manila – ha fatto il resto: infrastrutture lucide, attenzione mediatica, sponsor. Ma soprattutto, una spinta psicologica: giocare a casa impone ma sostiene. L’atmosfera di Pasay, nel giorno dell’Egitto, è il vero sesto uomo: «full house», pressione costante, l’inerzia che a tratti diventa trascinamento. Dentro quella cornice si è accesa la prestazione dei riferimenti offensivi – Bagunas, Espejo –, la regia ha trovato continuità, la ricezione ha ridotto gli strappi. È una squadra che si riconosce e si fida. Il bilancio sportivo è netto: terzo posto nel girone e niente ottavi – passano le prime due, Tunisia e Iran –, ma con un segno tangibile lasciato nella memoria collettiva. La differenza tra “partecipare” e “restare” sta spesso in una prima vittoria che fa storia. Per questa volta, è bastato. Per la prossima, sarà la base minima. Volley, Italia campione del mondo dopo 23 anni. E Mattarella invita le azzurre al Quirinale Normalizzare la fatica C’è poi un effetto meno fotografabile e più importante: la normalizzazione della fatica. Con Frigoni, la nazionale ha smesso di cercare scorciatoie. Il ciclo è chiaro: raduni, test internazionali, analisi, correzioni. La medaglia al SEA V.League nel 2024 era stata un indizio; il Mondiale ha messo il timbro. Non è un cambio di destino, è un cambio di abitudini: stessi volumi di lavoro delle nazionali europee, stessa maniacalità sui fondamentali, stesso lessico di responsabilità. Quando un Ct di 71 anni, dopo la sirena con l’Egitto, si stende sul parquet per un secondo di gioia pura, non è teatralità: è la valvola di chi ha chiesto a un gruppo di credere, ogni giorno, in un livello più alto. La cornice federale tiene. L’Empowerment ha aiutato a riallineare i calendari locali, a costruire staff, a dare continuità ai raduni. Gli stadi pieni hanno richiamato sponsor e broadcaster, e soprattutto hanno rimesso la nazionale maschile nel discorso pubblico. Le Filippine restano lontane dalle prime dieci al mondo, ma non sono più un’ospite timida: hanno un’identità leggibile – volume in battuta, ritmo in cambio palla, orgoglio difensivo – e un orizzonte coerente. Il Mondiale non ha riscritto le gerarchie, ha riscritto le priorità. Cosa resta, ora, oltre alla fotografia di un tabellone e all’eco di un’arena? Resta una cultura che comincia a sedimentare: metodi condivisi, staff valorizzati, giocatori che si percepiscono parte di un sistema. Resta un pubblico che ha riconosciuto la nazionale maschile come prodotto competitivo, non folklorico. Resta un gruppo che ha imparato a vincere una partita mondiale, e che sa quanto costa farlo ancora. Le pietre angolari sono lì: un allenatore che ha dato regole e tempo; un programma internazionale che ha dato struttura; un paese che ha messo la faccia sull’evento e ci ha guadagnato reputazione. La classifica non racconta tutto; quella vittoria, sì.