Non di soli campi in terra vive un tennista: Musetti e il problema dei “quattro padri”

Torino - Abbiamo un problema. Anzi: Lorenzo Musetti corre un pericolo. Non che la sconfitta netta patita per mano di Taylor Fritz nel primo turno delle Finals torinesi abbia peggiorato la situazione: sarebbe stato onestamente sorprendente se il carrarino, sbarcato alla Inalpi Arena grazie alla rinuncia di Novak Djokovic e dopo un cursus honorum massacrante ad Atene, avesse celebrato il suo esordio nel torneo dei tornei con una vittoria. Ma soprattutto in vista della prossima stagione il pericolo che potrebbe correre l’ultimo vero artista che il tennis contemporaneo annovera è quello di non risolvere il “problema dei quattro padri”, la versione tennistica della saga fantascientifica incentrata su tre corpi. Il secondo del poker, l’attuale ballerino-con-le-stelle Fabio Fognini, in carriera ha vinto e mica poco: nove titoli di singolare sui cui spicca il trionfo a Montecarlo e cinque di doppio con il major di Melbourne a brillare di luce violenta. Musetti e Fognini sono amici da tempo ed è stato Lorenzo a definire Fabio «una sorta di secondo padre». In parecchi hanno notato che il prossimo coach che Musetti farà entrare nel suo team al fianco di Tartarini (out Barazzutti) sarà José Perlas, o almeno così si sostiene dato che manca l’ufficialità; Perlas è stato coach di Fognini per cinque anni e ne ha gestito le vicende in un periodo delicato della carriera del ligure. Dunque il minimo che ci si potrebbe attendere è che José infonda al nostro quella garra iberica che in troppe occasioni è parsa fargli difetto? Se la questione fosse esclusivamente così, nulla ci sarebbe da eccepire. Ma il pericolo si annida nei dettagli, come il diavolo. Sinner e la figura del coach-padre. Il futuro di Darren Cahill è «nelle sue mani» Andare oltre i campi in terra Intanto un padre a tutti gli effetti Musetti ce l’ha e non è certo uno che abbia fatto crescere il figlio in una bolla più o meno dorata. Francesco Musetti è operaio in una cava di marmo a Carrara. E non ha alcuna intenzione (né mai l’ha avuta) di modificare la sua esistenza perché il figlio è diventato una star dello sport mondiale. E men che meno perché per la prima volta in carriera è arrivato a giocare il torneo di campioni. Nel maggio di quest’anno al Foro Italico si è assiso in tribuna per sostenere il figlio che giocava un doppio al fianco di Sonego e contro i fratelli Berrettini, dove una valente giornalista l’ha scovato e gli ha chiesto: dopo il match che farete? E lui: mia moglie e io saliremo in auto e torneremo a casa. Domani è lunedì e noi dovremo lavorare. Ma il fatto è che un secondo padre sul campo da tennis ha un peso che il genitore naturale non può avere. E poi c’è il terzo: perché pure Tartarini non è che rivesta panni molto diversi nei confronti di Lorenzo. Il punto è che quello in arrivo, il quarto, José Perlas, è uomo di terra. Da coach, prima di Fognini, ha condotto Carlos Moya e Albert Costa alla vittoria al Roland Garros. Ha detto Djokovic ad Atene rivolto a Lorenzo: «Sulla terra magari giochi meglio, ma anche sul duro hai fatto enormi progressi». Il problema è che quei progressi non gli hanno comunque consentito, almeno sino a oggi, di vincere - se non quanto Sinner e Alcaraz - qualcosa di più delle sei finali perse negli ultimi due anni. Uno con quel talento può oggi evitare di crescere in misura sensibile sui campi dove si disputa oltre il 70 per cento della stagione? Risposta: no. Perlas sa come si vince sulla terra, questo è sicuro: esistono dubbi che possa insegnare come si vince, superando i propri fantasmi, anche su altri terreni. La nuova battaglia dei sessi contro Kyrgios l’ha già vinta Sabalenka: perché quella di Dubai sarà “solo” una partita Conservare la gioia E poi c’è il cervello. Se c’è un “trauma” che mai il padre n.2 Fognini ha superato del tutto è stato il rapporto di amore-odio con lo sport che è diventato la grande impresa della sua vita. Fogna nemmeno quando ha vinto a Montecarlo ha trasmesso la sensazione di essere felice. Il suo tennis è sempre sembrato un continuo stridore fra il dover essere e l’essere. Musetti (nonostante i poco onorevoli apprezzamenti spesso espressi in campo all’indirizzo della Santissima Trinità) invece è atleta di gioia. Se Alessandro Haber ha dichiarato che il salire sul palcoscenico e rapportarsi col pubblico è per lui qualcosa di simile all’orgasmo, per Musetti tirare un lungolinea di rovescio quando i suoi piedi distano tre metri dalla linea di fondo è qualcosa di analogo. E quella gioia orgasmica derivante dal riuscire dove la stragrande maggioranza dei suoi colleghi fallirebbe è un tesoro che Musetti deve conservare a ogni costo, anche se il n.2 quella gioia limpida l’ha provata raramente. A guardarlo giocare, il Musetti, ci si chiede perché uno dotato di quei mezzi per essere dominante sempre (riguadare il primo set del match con Djokovic per averne la prova) debba trascorrere ore di partita così lontano dalla rete, anche e soprattutto quando non ce ne sarebbe bisogno. La speranza è che Perlas, se sarà lui il n.4, coltivi la sua autostima tanti quanta basta per evitare di commettere doppi falli nei momenti clou dei match, per far partire gli scambi magari un pochino più avanti in modo da sfruttare di più il suo delizioso gioco a volo. Ma il timore che questo non avverrà affiora. Intanto Musetti giocherà martedì sera contro Alex De Minaur la partita per lui decisiva ai fini della permanenza nelle Finals. E, alla fine, godiamocelo anche se perde: potremmo anche scoprire, un giorno, che più che aggiungere padri alla lista, il nostro dovrebbe psicanaliticamente ucciderne uno per liberare il suo talento. Ma si sa, non è mai una scelta facile. 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