Se lo sport è sempre meno “giovane”. Convertire l’agonismo in bene comune

La legacy (eredità) è la parola chiave, il passepartout con cui il Comitato organizzatore di ogni Olimpiade apre le casseforti dei finanziamenti. Nel linguaggio ufficiale, come ha ribadito la Fondazione Milano-Cortina, essa significa lasciare infrastrutture riutilizzabili, creare impatto sociale e culturale, favorire trasformazioni urbane e territoriali, rispettare la sostenibilità ambientale. La legacy è la giustificazione della spesa, la motivazione dell’impegno economico, la cornice retorica che contiene e sostiene il progetto a cinque cerchi. Come richiama il suo significato, trasmette il concetto di un passaggio generazionale, dunque di attenzione al futuro, ai giovani che beneficeranno di impianti sportivi, città più vivibili, programmi di inclusione e avviamento allo sport. Nel nostro paese però, questa promessa si deve piegare a una diversa interpretazione. In Italia l’età media è di 48,7 anni, dato che ci colloca al primo posto in Europa e al quinto nel mondo, nella speciale classifica delle popolazioni più vecchie; gli over 65 sono il 24,7 per cento; gli over 80 sono 4,6 milioni e, per la prima volta, superano i bambini sotto i 10 anni che, secondo i dati Istat 2025, sono 4.326.000. Come a dire che il sacro fuoco di Olimpia, più che accendere i talenti di domani, scalderà le vecchie membra dei talenti di ieri. Se lo sport è il metro per misurare quanto il patriarcato sia ancora vivo Fotografia anagrafica Guardando la fotografia anagrafica e demografica degli italiani con lo sguardo dell’ottimismo, si apre un ribaltamento della prospettiva: non siamo una società anziana, ma longeva. L’attenzione si sposta dalla quantità alla qualità, dal contare gli anni che passano al modo di riempirli di senso e di viverli al meglio. In questo orizzonte, l’attività fisica diventa il pilastro su cui costruire, concretamente e spiritualmente, il benessere individuale e collettivo. E, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, lo sport agonistico amatoriale si rivela come una dimensione sorprendentemente accattivante: gli italiani non cercano il semplice esercizio o l’attività motoria, ma gare, tornei, campionati. Negli ultimi cinque anni le categorie over 35 hanno registrato una crescita a doppia cifra, con incrementi stimati intorno al 20‑25 per cento nelle principali federazioni. In fondo non è poi così strano: può rappresentare la seconda occasione per sciogliere il rimpianto verso ciò che si desiderava ma che non si è potuto, saputo, osato fare; può essere un’elegante forma di rivincita per chi ha dovuto subire una battuta d’arresto, un inciampo del destino; e sa essere un potente stimolo in una fase della vita in cui il tempo sembra più marcare confini piuttosto che aprire a nuovi orizzonti. Eccole le due facce della medaglia dello sport agonistico amatoriale: riscuotere un credito dal passato, permettendo di saltare in corsa su quel treno perso da giovani e reinventare il presente, percependo l’età per ciò che ancora di nuovo può offrire piuttosto che per ciò che toglie. In questo senso, è un modo formidabile per democratizzare l’agonismo: non serve un allenatore federale, non serve un contratto con uno sponsor, non si rischia l’iperspecializzazione precoce, non si compromette lo studio, non serve che soddisfi il bisogno di mantenersi o di conciliazione con il post agonismo, serve solo la volontà di partecipare. Gioca o no, Sinner trascina il tennis: il brand che crea ricchezza in Italia La classifica degli sport Considerando esclusivamente coloro che hanno certificato la propria idoneità agonistica per poter disputare competizioni ufficiali, la classifica degli sport più praticati a livello amatoriale è guidata da tennis e padel (che si potrebbe considerare la sua versione più accessibile). Sulla cresta dell’onda Sinner, dunque, anche gli over 35 sono cresciuti fino a rappresentare il 40 per cento del totale dei tesserati federali. Segue il ciclismo, l’atletica, il nuoto. Tra gli sport di squadra calcio e volley. Che lo sport faccia bene non è una novità, però ora la scienza conferma anche gli effetti positivi di questa “seconda giovinezza agonistica”. Secondo il Copenhagen City Heart Study, il tennis e, in generale, gli sport “con la racchetta” praticati con costanza per almeno 2 o 3 ore settimanali, sono associati a un incremento medio di 9,7 anni nell’aspettativa di vita. Il motivo non risiede soltanto nell’intensità dello stimolo allenante, bensì nella combinazione unica di esercizio aerobico, stimolo cognitivo e dimensione sociale: correre, colpire, anticipare l’avversario e condividere il gioco con altri, generano benefici cardiovascolari, neurologici e relazionali che si sommano e amplificano l’effetto sulla longevità. Seguono il calcio con 4,7 anni, il ciclismo con 3,7, il nuoto con 3,4 e il jogging con 3,2 (sempre a fronte di una pratica continuativa nel tempo di almeno 2/3 allenamenti settimanali). Ricerche dei paesi scandinavi evidenziano che discipline invernali come lo sci di fondo o lo sci alpinismo hanno benefici comparabili a ciclismo e jogging, anche se con un rischio maggiore di infortuni. Sci alpino e pattinaggio veloce hanno maggiori benefici sulle qualità anaerobiche. In generale però, la stagionalità e l’accessibilità, in termini di spostamenti e attrezzature, confligge con la possibilità che queste discipline, anche a livello agonistico amatoriale, abbiano grandi numeri. Perciò l’eredità dei Giochi olimpici invernali Milano-Cortina, se un impatto lo avranno, sarà più sulla dimensione culturale sportiva del nostro paese che su quella statistica dei praticanti delle specialità che si vedranno in programma. Tra lo sport e l’ecofemminismo, affrontare la tempesta con Clapcich Limiti e vantaggi Certo, non mancano i limiti. L’agonismo amatoriale può essere più traumatico, può diventare ossessione, il divertimento si può trasformare in ansia da prestazione, frustrazioni, illusioni di giovinezza eterna. Ma nella maggior parte dei casi, il bilancio resta positivo: meglio un pettorale che un telecomando! Il vero messaggio dello sport amatoriale è semplice: non è mai troppo tardi. Non è mai troppo tardi per scoprire che l’agonismo, se liberato dalla logica del risultato assoluto, è una forma di vitalità che appartiene a tutte le età. In un paese che invecchia, questa è forse la vera legacy olimpica: la possibilità di trasformare l’agonismo in un bene comune, accessibile a chiunque voglia provarci, a qualsiasi età. Perché, alla fine, cosa conta davvero? Conta il movimento, il divertimento, la condivisione. Conta la voglia di lanciarsi una sfida, di mettersi in gioco, di prepararsi, confrontarsi, il desiderio di migliorare. Conta avere la curiosità e la forza per provare qualcosa di nuovo, per uscire dalla zona confort che poi, nel tempo, rischia di diventare una gabbia di abitudini e pigrizia. E allora, nei prossimi mesi, quando sentiremo ripetere la parola magica “legacy olimpica” associata alle giovani generazioni, potremo sorridere sapendo che, in Italia, l’avviamento all’agonismo e alla cultura sportiva riguarda anche o forse, soprattutto, chi ha i capelli bianchi e le ginocchia che scricchiolano. Perché il vero paradosso nel nostro Paese che invecchia è che bisogna coltivare la longevità per riprendersi quell’opportunità di competere che le politiche sportive non hanno saputo garantire ai giovani di ieri ma che, speriamo, riusciranno a garantire a quelle di domani. Perché non è mai troppo tardi, nemmeno per sperare.