Nel calcio le grandi squadre schiacciano e fagocitano le piccole. Eppure, i club locali rappresentano un tifo di appartenenza che sta scomparendo. Per Paul Desbaillets, direttore creativo del neonato club canadese, la vera vittoria è questa, perché «essere quebecois vuol dire essere cresciuti nella diversità». Da qui l’idea di una società che non compri il talento, ma lo costruisca
«Un club d’ici, pour ici». Cinque parole che suonano come un giuramento, più che uno slogan. Il Supra du Québec, nuova squadra della Canadian Premier League, nasce con una promessa che va controcorrente rispetto al modello dominante nello sport nordamericano: reclutare solo giocatori, tecnici e dirigenti nati o formati nella provincia francofona.
Non un capriccio identitario, ma un atto culturale. Perché il calcio, in Québec, è un linguaggio universale: si impara per strada, si respira nei campetti innevati, si parla con l’accento di chi porta dentro un’idea di comunità.
Il riferimento dichiarato è l’Athletic Club di Bilbao, la squadra basca che da oltre un secolo limita le proprie selezioni a chi è nato o cresciuto nel territorio. Ma in questa imitazione non c’è nostalgia: c’è il tentativo di ritrovare il senso del gioco come appartenenza, come luogo di traduzione culturale. «Questo club esiste per servire i giocatori della nostra provincia - ha detto il presidente Rocco Placentino -. Saremo rappresentati da chi vive qui, da chi è cresciuto qui. L’identità locale non sarà una cornice, ma la sostanza».
Il laboratorio quebecchese
Il Québec, con i suoi 8,5 milioni di abitanti, è il laboratorio perfetto per un esperimento simile. Una provincia francofona in un paese anglofono, dove la lingua è bandiera, la memoria è terreno politico e l’appartenenza passa anche attraverso lo sport. Per decenni ha prodotto pochi calciatori internazionali, ma oggi la situazione è cambiata: da qui arrivano Maxime Crépeau, portiere del Canada in Copa América, Mathieu Choinière, centrocampista dell’Impact, e i due simboli della nuova generazione, Ismaël Koné e Moïse Bombito, ora in Europa tra Francia e Italia. Talenti cresciuti nei sobborghi di Montréal o Laval, spesso in contesti multiculturali, che hanno dovuto cercare spazio altrove.
Il Supra promette un’alternativa: un club che non compri il talento, ma lo costruisca. Nel panorama del calcio canadese, dominato dalla MLS - con Toronto, Vancouver e Montréal come satelliti delle grandi leghe globali - la Canadian Premier League resta l’unico spazio dove la dimensione territoriale può ancora contare. Per questo l’arrivo del Supra du Québec non è solo una notizia sportiva: è un gesto politico e civile. Significa dire che anche qui, nella provincia più europea del Nord America, il calcio può avere radici.
Il calcio come linguaggio condiviso
Il concetto di “club locale” ha sempre un’ombra di rischio. Può degenerare in chiusura, in purezza di bandiera. Ma il Supra lo interpreta al contrario: come occasione di inclusione. Il territorio che rappresenta è già un mosaico. Nel solo perimetro di Montréal convivono comunità italiane, haitiane, algerine, tunisine, portoghesi, greche. Ciascuna con la propria storia migratoria, la propria squadra del cuore, la propria idea di calcio. Metterle insieme sotto un’unica maglia significa costruire una grammatica comune, dove la lingua madre non è solo il francese, ma la capacità di capirsi attraverso il gioco.
Paul Desbaillets, direttore creativo del club, ha spiegato che: “Essere quebecois vuol dire essere cresciuti nella diversità”. È questa la materia prima del progetto: trasformare la pluralità in identità. La sfida sarà farlo senza retorica, mantenendo fede al principio di apertura. Il calcio, dopotutto, funziona solo se resta un linguaggio condiviso.
Conta il percorso, non solo la vittoria
Sul piano tecnico, la sfida è enorme. Competere con vincoli di reclutamento in un campionato professionistico richiede un lavoro di scouting capillare, accademie diffuse e un modello formativo stabile. Il club condividerà lo Stade Boréale di Laval con la squadra femminile Montreal Roses: un impianto da 5.500 posti, dimensione giusta per costruire appartenenza. Non uno stadio di passaggio, ma un punto di ritrovo. L’obiettivo, ha detto Placentino, è creare una filiera: “Dalla scuola calcio alla prima squadra, vogliamo che i ragazzi crescano vedendo davanti a sé un percorso reale”.
Il rischio, semmai, è economico. Per durare serviranno investimenti, alleanze con istituzioni e sponsor, e una visione che vada oltre il risultato. Ma proprio in questo si gioca la scommessa culturale del Supra: se riuscirà a restare fedele alla propria idea, diventerà un modello replicabile per altre città medio piccole, non solo in Canada.
Se il progetto funzionerà, un giorno i bambini del Québec potranno riconoscersi non solo nei campioni della Premier League inglese, ma nei volti dei ragazzi del loro quartiere. Capiranno che il pallone, come la lingua che parli da bambino, ti resta addosso per sempre. E che il modo più vero per custodirla non è tenerla per sé, ma usarla per farsi capire dagli altri.
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