Se conta solo il ranking Atp: nessuna rivoluzione salverà la Coppa Davis

Torino - Chissà cosa sarebbe successo al barone Gottfried Von Cramm se, agli inizi di luglio del ’37, dopo aver perso la finale di Wimbledon contro Don Budge, avesse annunciato al suo capitano Heinrich Kleinschroth che non avrebbe risposto alla convocazione per la Coppa Davis, in quanto stanco. E fors’anche spaventato (si fa per dire) dalla possibilità di ri-perdere contro Budge. È abbastanza prevedibile che avrebbe anticipato (lui che era già ampiamente tenuto d’occhio dalla Gestapo per la sua omosessualità) il destino che gli sarebbe toccato qualche anno più avanti, cioè di finire in un campo di lavoro. Oggi la stragrande maggioranza dei tennisti non corre il rischio di ricevere telefonate intimidatorie di Hitler o di suoi seguaci, come parte della storiografia sostiene sia successo al barone prima del match decisivo di quel Germania-Stati Uniti (assai più probabilmente non ci fu mai, ma vuoi mettere il gusto che si prova a raccontare una storia del genere): e non si cura di marcare visita con diverse motivazioni quando si tratta di giocare in Davis. L’ultimo in ordine di tempo è stato Lorenzo Musetti che, come si era ampiamente capito, davanti alla prospettiva di scapicollarsi a Bologna e rigiocare da mercoledì a domenica prossimi, ha cortesemente rifiutato. Di Jannik Sinner già si sapeva. Si vince con occhi e orecchie: se le Atp Finals diventano laboratorio del super tennista La battaglia tra Atp e Itf Quando si parla di Davis Andrea Gaudenzi, Ceo dell’Atp, fatica a reprimere il sogghigno che spinge per stamparsi sul suo volto. Perché Gaudenzi sa bene che la partita volge a suo favore, almeno per il momento: quella che oppone da sempre, a livello maschile, l’Atp alla Federazione internazionale di tennis (l’Itf) che invece gestisce la Davis, che di punti Atp non ne assegna. E pensare che Gaudenzi è legato assai ai ricordi di Davis. Soprattutto a quello, dolorosissimo, di quando si ruppe il tendine della spalla al Forum di Assago contro Magnus Norman. Ma il business è business e la Davis rischia di venirne stritolata. Come sempre, più di sempre. Per Gaudenzi la stagione finisce a Torino e quello che viene dopo è un ammennicolo nemmeno fastidioso, ininfluente. Per lui e per molti tennisti è più importante la Laver Cup, creatura di Tony Godsick e Roger Federer, la versione tennistica della golfistica Ryder Cup che infatti è compresa nell’alveo Atp. E per far capire che aria tira, a inizio gennaio Atp ha inserito la United Cup, altra competizione a squadre che apre la stagione. Torino confermata fino al 2027, ma poi? La battaglia politica intorno alla sede delle Atp Finals La proposta di Alcaraz Si può salvare la Davis o ormai ci si deve rassegnare al fatto che il tennis chiude baracca con le Finals e tanti saluti? Carlos Alcaraz, che a Bologna ci sarà perché la Davis non l’ha ancora vinta e insomma meglio avercela quella stella sulla giacchetta, ha avanzato un’idea: giocarla come la Ryder, ogni due anni. O forse tre o quattro come i Mondiali di calcio. Proposta appoggiata da Sinner che, battendo Shelton, si è aperto la strada verso il montepremi record di oltre 5 milioni di dollari riservato a chi vince a Torino senza perdere nemmeno un incontro. Ha detto Jannik: «In fondo la vera Davis io non l’ho mai giocata. Bisogna tornare alle partite in casa a e fuori con semifinali a inizio anno e finali alla fine. Ma dove ci sono i tifosi. E per decidere la sede tiriamo la monetina». Una proposta che ha senso anche se, conoscendo i giocatori, si può tranquillamente azzardare che pioverebbero i certificati medici anche in quel caso. Quando prese il via la rivoluzione Piquè (addio al format dei cinque set e agli incontri casa/trasferta, Finals a fine anno sul modello di quelle Atp), si disse che tale rivoluzione avrebbe portato i top player a non tirarsi più indietro, oltre a garantire una sponsorizzazione fondamentale che se no sarebbe venuta meno. I soldi sono arrivati, ma le cose non sono cambiate granché rispetto a prima. La strana sorte del doppio: il lato più spettacolare del tennis che i big continuano a snobbare Le Finals scoppiano di salute, la sorte della Davis potrebbe essere ben sintetizzata da Carlo Verdone che si lamenta della Sora Lella: «Allunga le gambe a nonna, piega le gambe a nonna...». Le provano tutte per risollevarla, ma con pochi risultati e controsensi normativi di peso, come il fatto che in un match della Finals di Davis il doppio, che nessuno dei big gioca durante l’anno, è invece decisivo. Ora Gaudenzi, Alcaraz e Sinner vorrebbero allungare le gambe alla nonna riprendendo la tradizione dei match in casa e fuori: ma il vero punto è che il tennis si è sinnerizzato, giocato com’è da big che vivono in un immenso non luogo dove ciò che fa la differenza sono, oltre ai soldini, i punti Atp, come le stelline che determinano la vita di ogni essere umano in un imperdibile episodio di Black Mirror. Giocare per il proprio paese, per di più a fine anno? Se proprio si deve. Tanto, se non si accetta la convocazione, non si corre nemmeno il rischio di dover ricevere una telefonata minatoria da parte di qualche tizio svitato con baffetti. Non di soli campi in terra vive un tennista: Musetti e il problema dei “quattro padri”