L’Europa naviga nella terza ondata della pandemia da Covid-19 e lo fa con gli strumenti più collaudati ma anche più costosi dal punto di vista sociale ed economico: le chiusure più o meno generalizzate e sempre più uniformi sul territorio. Guardando avanti, però, c’è la pianificazione delle riaperture. L’andamento delle campagne di vaccinazione segnala che i vaccini da soli non ci accompagneranno fuori da questa ondata. Quando riapriremo, il numero di persone suscettibili e a rischio di sviluppare forme gravi della malattia sarà ancora sufficiente a mettere sotto pressione i sistemi sanitari. In quella fase dovremo sfruttare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione, tenendo a mente che funzionano meglio se usati in sinergia.

Il tracciamento

Tra questi strumenti ce n’è uno che è stato ingiustamente accantonato in Italia: il tracciamento digitale dei contatti. All’inizio di febbraio, Luca Ferretti, ricercatore al Big Data Institute della University of Oxford ed esperto di modelli matematici delle epidemie, fra i primi a mostrare l’importanza del tracciamento digitale per la Covid-19, ha realizzato uno studio sull’impatto della app del National Health Service, insieme ad altri colleghi di Oxford e dell’Alan Turing Institute. Lo studio ha concluso che da ottobre a dicembre del 2020 il numero di casi evitati per via delle segnalazioni inviate dalla app sono state tra 280mila e 600mila (a seconda del metodo utilizzato per la stima). Il numero di morti evitate varierebbe tra 4mila e 9mila.

Il successo della app dipende sicuramente dal grande numero di download, circa 22 milioni (il 33 per cento della popolazione), ma non solo. Il numero di persone che hanno comunicato alla app di essere positive a un test molecolare per Sars-CoV-2 sono circa 560mila e le notifiche inviate quasi un milione e 830mila. Le notifiche vengono inviate secondo il valore di un indice di rischio calcolato in base alla durata e alla vicinanza del contatto avvenuto tra i possessori degli smartphone che hanno la app installata e attiva. Se questo indice è sopra una certa soglia il contatto viene considerato a rischio e allertato. La soglia può essere aggiornata per tenere conto delle variazioni nella situazione epidemiologica, per esempio della maggiore contagiosità delle nuove varianti. Il 6 per cento circa di coloro che hanno ricevuto una notifica sono risultati poi infetti.

Immuni

La app Immuni, dal suo lancio nel giugno del 2020, è stata scaricata poco più di 10 milioni di volte (il 18% della popolazione), ma non sappiamo quanti l’abbiano disinstallata. Gli utenti che hanno comunicato alla app di essere positivi sono poco più di 15 000 e le notifiche di contatto a rischio inviate sono circa 94 000. Non sappiamo quanti degli utenti che hanno ricevuto una notifica siano poi risultati contagiati.

Il collo di bottiglia è quindi nella registrazione della positività, che fino a poco tempo poteva essere effettuata solo chiamando i call center, ma che dalla scorsa settimana può essere fatta in autonomia inserendo un codice ricevuto insieme al risultato positivo del test. Ma forse a scoraggiare gli italiani sono state anche le istituzioni, che hanno di fatto cancellato Immuni dalla loro agenda comunicativa.

Eppure, oltre ai dati raccolti sul campo in Inghilterra, sono diversi gli studi scientifici che dicono che il tracciamento digitale dei contatti può essere efficace. Tra i più recenti c’è quello pubblicato due settimane fa sulla rivista Nature Communications e coordinato da Bruno Lepri, direttore del laboratorio Mobile and Social Computing presso la Fondazione Bruno Kessler (FBK) di Trento, insieme ai colleghi di FBK e di altri centri di ricerca italiani ed europei. Lepri e coautori hanno stimato che il tracciamento digitale dei contatti può essere efficace nel contenere l’epidemia anche se il livello di adozione è relativamente basso (il 20% della popolazione) e la frazione di popolazione posta in isolamento preventivo (quarantena) è contenuta, a patto che siano mantenute alcune misure di distanziamento sociale.

Il risultato di Lepri e coautori è molto significativo perché si basa su dati di contatto reali, quelli del Copenhagen network study che ha raccolto per quattro settimane i dati di prossimità di 700 studenti universitari sulla base dell’intensità e della durata dei segnali bluetooth scambiati dai loro cellulari. Usando un modello matematico, che tiene conto dell’evoluzione della contagiosità dal momento dell’infezione e di come questa dipenda dalla distanza spaziale e dalla durata dell’interazione, è stato possibile simulare la diffusione del virus nella rete sociale degli studenti e contemporaneamente implementare diverse strategie di tracciamento digitale.

«La strategia più permissiva considera a rischio solo i contatti che durano più di 30 minuti e sono al di sotto di un metro, la più restrittiva invece invia la notifica di esposizione anche a coloro che hanno incontrato una persona infetta per meno di cinque minuti e a distanze più grandi di un metro. Per ogni simulazione l’infezione è partita da un soggetto sorteggiato casualmente. Questo ci ha permesso di stimare l’efficacia del tracciamento, ovvero la percentuale delle persone infettate da un singolo individuo che ricevono l’allerta della app, e il tasso di falsi positivi, ovvero la percentuale delle persone che ricevono l’allerta dalla app ma non sono state contagiate», spiega Giulia Cencetti, ricercatrice di Fbk e coautrice dello studio.

«La scelta di modellizzare anche politiche meno restrittive, risponde alla necessità di contenere il tasso di falsi positivi», spiega Lepri. «Questo è importante anche per garantire il rispetto della quarantena. La prima volta che la app mi allerta e mi invita a isolarmi magari lo farò, ma se poi viene fuori che non ero stato contagiato e magari l’isolamento ha un impatto forte sul mio reddito, sarò meno incline a rispettare le notifiche che arriveranno in futuro».

Una volta stimati questi parametri, i ricercatori hanno simulato l’evoluzione dell’epidemia per un periodo di circa due mesi e stimato l’impatto complessivo delle diverse strategie di tracciamento sull’incidenza dei nuovi casi.

Hanno trovato che se il 20 per cento della popolazione utilizza la app, questa è in grado di contenere l’epidemia, cioè far diminuire l’incidenza, anche con la strategia più permissiva che mette in quarantena meno del 2 per cento della popolazione, a patto che vengano imposte misure di distanziamento tali da contenere l’indice di riproduzione netto del contagio a 1,2 e che ci sia un’alta efficienza nell’identificare e isolare i casi infetti. Se il tasso di adozione sale al 40 per cento e si adottano le strategie più restrittive, che mettono in quarantena tra il 2 e il 5 per cento della popolazione, si può pensare di rilassare un po’ il distanziamento, permettendo all’indice di riproduzione netto di arrivare fino a 1,5.

È importante però sottolineare che il modello assume che non trascorrano più di due giorni da quando una persona riceve un risultato positivo a quando si isola e vengono inviate le notifiche tramite app. Se questo ritardo sale a tre giorni, l’impatto del tracciamento digitale diminuisce notevolmente.

Le app da sole non bastano

«La app si inserisce in un ecosistema che ha componenti critiche non digitali, e la sua efficacia dipende da tutto l’ecosistema e dalla fiducia dei cittadini», commenta Ciro Cattuto, professore associato all’Università di Torino, principal scientist di Fondazione Isi e coautore dello studio. «Ritengo che Immuni sia una storia di successo dal punto di vista tecnologico: una collaborazione fra istituzioni pubbliche e big tech per creare un intervento di salute pubblica basato sui dispositivi personali dei cittadini, progettato secondo i principi europei della privacy by design.

Questo è fondamentale, e lo era ancor di più all’inizio, quando esistevano meno informazioni sui potenziali benefici del tracciamento digitale. Ora che si iniziano ad accumulare prove più concrete che le app possano fare la loro parte, sarebbe un peccato non sfruttarle».

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