Apple ha annunciato fresco fresco, un accordo con la Cina, il paese dove da decenni produce i suoi Mac, iPhone e iPad, destinati a tutto il mondo, e allo stesso loro mercato interno, dato che lì ne vende tanti da ottenerne un quinto dei ricavi annuali. Apple è anche la compagnia dal segno libertario che nel 1984 si fece sotto nel mercato con i computer personali, solidi e semplici da usare che rendevano l’informatica un bene di famiglia, non più riservata ai mega calcolatori di Ibm e alle grandi aziende che se li potevano permettere.

Per l’appunto nel 1984 comparve lo spot in cui una fanciulla colorata corre dentro un mondo grigio fino a scagliare un martellone contro un Grande Fratello (leggasi Ibm) che tutto avrebbe voluto controllare. Apple si è fatta spesso un vanto di proteggere i clienti opponendosi persino alle richieste dell’Fbi di guardare nei cellulari di alcuni terroristi. Questa almeno era l’immagina associata alla “mela morsicata”, indipendentemente dal fatto che fosse o meno una recita dal palco mentre con l’Fbi si andava comunque a braccetto in altri modi.

Business is business

Questa immagine cambia di parecchio in seguito all’accordo con la Cina in cui è previsto: 1) che i dati generati in Cina vengano conservati solo in server posti in territorio cinese e siano gestiti da tecnici di fiducia del Governo; 2) che mai e poi mai verrà accettata nell’app store una qualche app sospetta di fomentare malcostume sessuale o peggio opposizione in merito agli uiguri, a Tien An Men, a Taiwan e simili questioni.

Resta da chiedersi se quest’accordo sia limitato al rapporto con la Cina o sia il primo di una serie in cui le grandi compagnie che ci sorvegliano (nel mentre che ci servono prevenendo ogni nostra pulsione o desiderio) trovano, stato dopo stato, uno stabile punto di equilibrio fra il proprio business e quello dei governi, che praticano da sempre la sorveglianza, in primo luogo sui propri cittadini. Se così fosse assisteremo in breve alla vicenda di compagnie tecnologiche (oggi Apple, domani forse Google, Amazon, Netflix, Facebook e compagnia) che dopo essersi allungate dall’America sul mondo, mettono radici specifiche in uno stato appresso all’altro.

Di conseguenza abbandonano la veste di aziende ancorate alla legislazione Usa per adattarsi alle norme, ai costumi e alle credenze di ogni specifico territorio. Si nazionalizzano, per così dire, al fine di stabilizzare e massimizzare i propri affari, al lieve costo di perdere la patina di campioni del capitalismo liberale, della distruzione del vecchio, ovviamente creativa per cui alla fin fine tutti ne sorridano.

La fine della grande fuga

In questi anni, dinanzi all’evidenza di un potere incontrollabile incapace esso stesso di tenere a bada le varie bestie che lo fanno guadagnare, è cresciuta nella Camera dei rappresentanti e nel Senato americani l’antipatia bipartisan verso quei miliardi frutto di evasione grazie alla natura immateriale e imprendibile della merce. Con l’elezione di Biden il vaso è traboccato e si son create le condizioni per dare un taglio a quell’andazzo.

La questione è notevole sia sotto l’aspetto fiscale sia per l’attività degli spioni privati oppure dello stato. Ormai tutti i Governi, compreso quello degli Stati Uniti, sono decisi a esigere almeno un minimo (forse il 15 per cento) di tasse laddove vendono la roba e incamerano i ricavi. A questo punto va a farsi benedire il modello di business della compagnia che gioca un fisco contro l’altro e li gabba tutti in una volta.

Se il nodo arriva al pettine solo adesso è perché il Governo Usa non cercava soldi per la politica sociale (a Biden invece ne servono parecchi) e, supponiamo, perché facendosi complice dei capitalisti della sorveglianza, si ottenevano compensi di tipo politico, ad esempio influenzando le elezioni proprie e altrui. Ce lo raccontano il caso Cambridge Analytica, la sigla che ha permesso a Facebook di favorire il candidato Trump, oppure l’ultima di Apple che zitta zitta ha passato al Trump presidente i dati delle app dei democratici. Ma ora le questioni fiscali guidano la danza e così Apple plana in Cina e si sottrae agli ordini esecutivi dei poteri Usa. Il prossimo passo, sarebbe incredibile che non accadesse, riguarderà la consegna dei dati ai vari governi della’Unione europea o a qualche organismo comunitario perché sarebbe insopportabile lasciare agli Usa i dati dei propri cittadini, raccolti dai maggiori spioni del momento. Gli Usa non se ne avranno a male e continueranno comunque la decennale pratica di spiare amici e alleati.

Il capitalismo estrattivo

Alle multinazionali della sorveglianza serve solo la fibra e il satellite per giungere ovunque, e dunque le patrie immateriali se le trovane da soli consegnando i dati e assicurando censure su richiesta e così pompare fatturato grazie allo scambio di foto dei gattini, al birignao twittarolo, alla voglia d’apparire degli adulti e dei bambini. Posto che nel loro business l’importante è presidiare ogni mercato, saturarlo e bloccare la crescita di altri a costo di comprarseli. Meglio ancora se così nessun governo avrà la tentazione di allevare nuovi concorrenti.

Insomma, così tutti ci guadagnano: la company globale a farsi gli affari propri con chi e dove gli pare e tenendo in mano il mondo per il verso del consumo; lo stato nazionale felice di ficcare il naso nei dati dei propri cittadini e di disporre di una base d’analisi potente per stroncare i disturbi fin dal sorgere. Contando entrambi sulla collaborazione del bravo cittadino che non manca mai d’avere appresso gli strumenti che lo spiano. 

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