È davvero uno strano alieno quello atterrato sulla via Emilia, suscitando grandi entusiasmi e qualche mal di pancia nel più famoso e dinamico distretto industriale italiano: il nuovo arrivato nella Motor Valley è la Silk-Faw, una casa automobilistica formata dal secondo produttore di vetture cinesi, il gruppo pubblico Faw (First automobile works), e dalla quasi sconosciuta azienda di ingegneria americana Silk-Ev, con uffici a Modena, New York e Changchun. Il loro obiettivo? Nientepopodimeno che realizzare una hypercar dalle prestazioni eccezionali, la Hongqi S9, progettata da uno dei più famosi designer del mondo, Walter De Silva, a due passi dalla Lamborghini e dalla Ferrari.

Il distretto

A due passi non proprio, per la verità: lo stabilimento verrà realizzato a nord est di Reggio Emilia, nell’area di Gavassa. Pare, ma sono solo voci, che la Silk-Faw desiderasse insediarsi dalle parti di Bologna e che la Lamborghini si sia messa di traverso non volendo avere troppo vicino un potenziale concorrente (la casa del Toro non ha voluto commentare).

Ma anche se costretta nella periferia del distretto, la Silk-Faw rappresenta una grandissima novità per la Motor Valley, un cluster dove si concentrano aziende storiche e altamente tecnologiche come Ferrari, Maserati, Lamborghini, Ducati, Dallara, Pagani. A cui si aggiungono fornitori, scuderie, autodromi, musei e collezioni private, perfino un’università dei motori, la Muner, creata dalle maggiori imprese della Valley insieme agli atenei emiliani. Un distretto con 16mila imprese, che impiega 66mila lavoratori e genera 25 miliardi di fatturato. Che è diventato anche una meta turistica: proprio in questi giorni, dall’1 al 4 luglio, si sta svolgendo la terza edizione del Motor Valley Fest, un festival con epicentro a Modena tutto dedicato al mondo dei motori.

La joint venture

In questo territorio ricco di industriosa italianità spunta dunque una joint venture sino-americana dalle grandi ambizioni. Come conferma Jonathan Krane, presidente della Silk-Faw, imprenditore americano che da una quindicina di anni fa affari con la Cina: «La costruzione del centro di innovazione e produzione di Reggio Emilia inizierà all’inizio del 2022 e sarà completato nella primavera del 2023. Prevediamo di assumere fino a mille persone, vogliamo attrarre i migliori esperti del settore a livello internazionale». Nello stabilimento di Reggio Emilia saranno prodotte due vetture della nuova serie S del marchio Hongqi: una è la S9, hypercar con propulsione ibrida, cioè con due motori, elettrico e tradizionale, alla quale seguirà la S7. Complessivamente la nuova gamma S della Hongqi dovrebbe essere formata da cinque o sei vetture elettrificate di cui tre o quattro prodotte in Cina.

L’investimento previsto è di oltre un miliardo di euro. «La maggior parte dell’investimento sarà in Italia, dove d’altra parte dobbiamo realizzare ex novo il centro di innovazione e produzione», precisa il presidente della joint venture. Parole che sindacati e politici locali non possono che accogliere con entusiasmo. «Siamo di fronte a un progetto di straordinaria portata», ha commentato il presidente della regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini. «Il fatto che la scelta sia caduta sulla nostra Motor Valley, la sola a livello mondiale, ci riempie d’orgoglio».

Il patto con la Cina

Non solo d’orgoglio, ma anche di curiosità. Oggi si svolge a Modena, nell’Università Unimore, il convegno “L’industria dell’auto e la Cina nell’èra dell’auto elettrica e della mobilità sostenibile”. Tra i promotori c’è il professore di economia industriale Sergio Paba: «È stato proprio l’investimento della Faw in Emilia a darci l’idea organizzare il primo convegno sull’industria dell’auto in Cina. Un mondo sconosciuto, e lo è per una ragione molto semplice: il grosso della produzione delle case cinesi è fatto attraverso le joint venture con i grandi player europei, americani e giapponesi. In Cina la Volkswagen, la Toyota, la General Motors, la Honda sono di gran lunga i leader di mercato con vetture prodotte insieme alle aziende locali come la Faw, la Dongfeng o la Saic». I marchi cinesi in sé, dunque, contano poco. Ma per le case occidentali l’industria automobilistica cinese è fondamentale, si può anzi dire che molte di loro vivono grazie alle vetture prodotte dalle joint venture create in Cina. Due esempi citati dal professor Paba: il 45 per cento della produzione mondiale della General Motors e il 35 per cento circa di quella della Volkswagen arrivano da fabbriche cinesi controllate al 50 per cento.

Per ora l’industria cinese non rappresenta una minaccia per i produttori occidentali. Secondo Dario Duse della società di consulenza Alixpartners «la Cina ha sovracapacità produttiva sia di batterie sia di veicoli ma le auto europee e americane hanno delle caratteristiche diverse rispetto a quelle per i cinesi. E un ingresso nel mercato europeo presuppone la costruzione di fabbriche in loco, perché con i ridotti margini di guadagno in questa industria l’esportazione dalla Cina non sarebbe sostenibile».

Cavallo di Troia?

Le grandi case cinesi, dunque, per adesso non esportano da noi e non sembra abbiano interesse ad aprire stabilimenti in Europa o negli Stati Uniti. Ci sono però società che iniziano ad acquistare aziende occidentali in difficoltà o decotte per rilanciarle e conquistare quote sul mercato europeo. Come la Geely, fondata nel 1986, che si è comprata la svedese Volvo e la britannica Lotus. O la Saic che ha acquisito il marchio Mg. Ma si tratta di una presenza modesta. Piuttosto Paba vede un possibile Cavallo di Troia nell’auto elettrica, dove i cinesi hanno conquistato negli anni un vantaggio competitivo rispetto agli europei: il 77 per cento di capacità produttiva mondiale di batterie per auto elettriche è nella Repubblica popolare.

In questo scenario lo sbarco dei cinesi nella Motor Valley appare come una piccola cosa. E le reazioni entusiaste per il suo arrivo un po’ esagerate. Anche perché l’operazione Silk-Faw presenta parecchie incognite. Intanto la Faw non brilla per dinamismo: fondata nel 1953, è nota per aver creato la Hongqi, il più antico brand del paese, le cui vetture di lusso erano riservate solo ai funzionari governativi di alto rango. Con 90 miliardi di euro di fatturato, ha venduto nel 2020 oltre 3,7 milioni di vetture grazie soprattutto alle joint venture con Volkswagen, Toyota e Mazda.

E poi, a chi è destinata una nuova hypercar dal nome sconosciuto che deve vedersela con marchi stranoti come Aston Martin, Ferrari, Lamborghini o Porsche? «Il nostro mercato principale è la Cina, ma stiamo puntando anche ai mercati internazionali, compresa l’Italia. La Motor Valley sta diventando sempre più il punto di riferimento nel segmento delle auto sportive elettriche», risponde Jonathan Krane. In realtà, la hypercar sino-americana avrebbe il compito di fare da biglietto da visita per la nuova gamma di auto elettrificate della Faw, con modesti obiettivi di vendita. «Purtroppo di iniziative del genere se ne sono viste molte e poche hanno avuto successo», commenta il manager di una casa automobilistica cinese che preferisce non essere citato.

Il brand Emilia

«Comunque, lanciare un brand e partire da una supercar è la mossa che fanno un po’ tutte le case per costruire credibilità e passione attorno al marchio: pensiamo per esempio alla Tesla o alla sua rivale cinese Nio che sono partite con vetture ad alte prestazioni. Farlo in Emilia credo contribuisca ancora di più a posizionare il brand sulla parte sportiva e prestazionale, come dimostra il riferimento decisamente esplicito alla collaborazione con Dallara. Non credo ci sia un obiettivo di vendita sulla hypercar, sicuramente sarà una serie limitata e non si sopravvive con quella». Ma intanto un certo impatto l’operazione Silk-Faw lo sta avendo: «Certamente provoca del nervosismo», racconta Paba, «perché attira talenti dalle altre case presenti nell’area. Comunque, per la Motor Valley questo investimento non è un male, porta occupazione e offre nuove opportunità al mondo dei fornitori. Bisogna vedere se l’operazione non sarà destinata a fallire, dando adito all’accusa che i cinesi sono venuti qui per rubare tecnologia. Cosa che io non credo, le altre acquisizioni che hanno concluso in Italia e in Europa dimostrano il contrario, a partire dal caso Volvo».

«La Faw è del governo cinese e questo rappresenta una garanzia», aggiunge Riccardo Campanile, manager che ha lavorato per 13 anni in Cina nel settore dell’aftermarket automobilistico. «La presenza degli americani invece è un’incognita, di solito se l’affare non produce risultati nei tempi previsti chiudono baracca e burattini. Sì, è davvero una strana unione».

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