Immaginate il tipico scenario di un film apocalittico americano. Un uomo vaga per una città deserta. Lì dove un tempo c’erano folle di persone, sono rimasti solo pochi superstiti. Lungo i ponti dove le auto erano imbottigliate nel traffico, ora ne passa soltanto una ogni tanto, a tutta velocità. Chi si incrocia si ferma a parlare, stupito di non essere il solo rimasto al mondo. Lo scenario vi dovrebbe essere chiaro, soprattutto dopo aver vissuto un lockdown.

Ora provate a spostare tutto questo in un mondo virtuale, entrando nella realtà che vive fra le vostre mani, dentro lo schermo di uno smartphone. La sensazione è quella che prova chi ancora si ostini ad avventurarsi in Clubhouse, il social network che abbiamo creduto fosse una rivelazione. E che invece è ormai un relitto popolato da pochi fedelissimi. Poco più di un Titanic sprofondato in un oceano di app, fra una notifica di Tinder e una nuova serie tv su Netflix.

L’età dell’oro

Per raccontare la storia di questa app bisogna per forza tornare indietro nel tempo, più o meno fra gennaio e febbraio. È importante sforzarsi di ricordare come vivevamo in quei giorni. Natale era passato alternando momenti in zona rossa e altri in zona arancione. Nel pieno della terza ondata e agli albori della campagna vaccinale, la vita sociale nelle città era appesa all’andamento dell’indice Rt.

Le feste erano vietate, molti ristoranti chiusi, non c’erano palestre e non c’erano concerti. I teatri erano abbandonati al loro destino, ad eccezione dell’Ariston di Sanremo, rimasto però senza pubblico. I matrimoni erano annullati, i funerali riservati a pochi intimi. Ogni nazione prendeva le proprie decisioni, ma lo scenario distopico era più o meno simile in tutto il mondo. Conoscere nuove persone, persino incontrare gli amici, era diventata un’impresa da affrontare davanti a uno schermo. Anche più del solito.

In questo contesto è apparsa Clubhouse. È un’app, disponibile inizialmente soltanto su iPhone, e creata durante la pandemia da Paul Davison e Rohan Seth, ex dipendenti di Pinterest e Google. Tutto quanto si basa sull’audio. Ogni utente può creare una stanza, in cui decide l’argomento da discutere. All’interno, ci sono gli utenti che ascoltano soltanto e quelli che invece stanno su una sorta di palco virtuale. Da lì possono intervenire e confrontarsi, apparentemente senza alcun limite.

La crisi

Con la percezione alterata da una “zona rossa” forzata, in molti hanno immaginato che questo potesse essere il social network del futuro. In effetti, a inizio febbraio l’app ha superato gli otto milioni di download. Un dato notevole, soprattutto perché all’app si poteva accedere soltanto ricevendo l’invito da chi era già iscritto.

Questo ha contribuito a diffondere l’idea che Clubhouse fosse a disposizione di pochi eletti (anche se raccattare un invito era diventato in breve molto semplice). Un posto dove si potevano fare discussioni impegnate, senza la necessità di una mediazione. Il problema vero è che queste discussioni erano in genere molto noiose. In breve le persone hanno iniziato a pensare che ci fossero modi molto meno tediosi per passare il tempo libero. Le stanze di Clubhouse si sono svuotate. Ad aprile i download sono stati 900mila in tutto il mondo.

Anche perché nel frattempo altri colossi, come Twitter e Spotify, e presto anche Facebook, hanno imitato lo stesso modello. Un paio di giorni fa Clubhouse ha tentato l’ultima mossa: ha finalmente tolto ogni lista d’attesa e ha aperto a tutti l’iscrizione. Interessa davvero a qualcuno? Forse solo a chi vuole tentare un viaggio in uno scenario apocalittico, dove rimane solo il ricordo dell’antico splendore.

 

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