Siamo abituati a considerarli una cosa sola: Big Tech, i colossi della tecnologia. Esiste anche un sostantivo, Gafam, composto dalle iniziali di Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft, tutte in testa all’indice dei brand più profittevoli al mondo. Apple è prima in assoluto – il marchio della mela nella classifica 2020 vale 268 miliardi di euro – ed è seguita da Amazon il cui valore in pandemia è salito del 60 per cento. Ma Big Tech non è un monolite: se è vero che ciascuna di quelle iniziali non teme rivali, fra loro queste multinazionali competono su un campo di battaglia che ci riguarda direttamente, e cioè i nostri dati. Lo dimostra un caso attuale. In questa storia, c’è Apple che annuncia una modifica al suo più recente sistema operativo in nome della privacy, e le altre big che la accusano di nascondere dietro la bandiera della riservatezza un assalto al mercato dei dati e un abuso di posizione dominante. Facebook, non certo l’ultima delle start up, va allo scontro «in nome dei piccoli sviluppatori». In questo confronto tra Golia del tech, rimane fuori Davide, e cioè il consumatore e il cittadino: dal punto di vista di chi abita il contesto digitale, la privacy e il pluralismo non dovrebbero essere alternativi tra loro. Esiste in effetti una terza strada, che tutela sia la riservatezza che il pluralismo. Non è detto però che sia Gafam a indicarla: la soluzione viene piuttosto dagli attivisti per i diritti digitali.

Dati fuori controllo

La contesa è sulle modifiche apportate da Apple nel suo sistema operativo di ultima generazione: ha da poco debuttato iOS 14.5. Nelle versioni precedenti, appena usiamo il cellulare, il “vecchio” iOS genera di default una targa, che diventa la nostra “identità ombra” e traccia i nostri comportamenti. È detta “idfa” (identificatore a fini pubblicitari) e anche sui cellulari android, Google usa un sistema simile. Attraverso “idfa”, le nostre attitudini vengono profilate non solo da Apple o da Google, ma pure dagli sviluppatori delle app che scarichiamo. Ogni app ha il suo segmento di informazioni che ci riguardano, ma la “targa” è il passepartout che consente di mettere insieme i pezzi e produrre un dettagliato identikit su di noi. Sul mercato “ad tech” vengono smerciati dati e delineati profili a scopo pubblicitario, marketing politico incluso. I nostri dati così sono fuori dal nostro controllo: basta che una app li condivida con 19 parti terze perché finiscano in mano a oltre 4mila società. A novembre l’avvocato Stefano Rossetti del centro europeo per i diritti digitali Noyb, fondato dall’attivista pro-privacy Max Schrems, ha depositato un reclamo contro Apple ai garanti per la privacy di Germania e Spagna; l’obiettivo politico è eliminare i tracciatori, la via legale sta nel mostrare che «l’idfa è un cookie sotto falsa veste, ma l’utente non può acconsentire alla sua creazione: viene generato a prescindere».

La nuova “identità ombra”

Con il nuovo iOS, per ogni app scaricata saremo messi di fronte all’opzione se concedere il nostro profilo-ombra o cliccare su “ask app not to track” (chiedi a questa app di non tracciarmi). Con l’intento dichiarato di tutelare la privacy, e su spinta delle battaglie collettive per la tutela dei dati, Apple opera una scelta che, secondo le previsioni, spingerà 8 utenti su 10 a dire “no grazie, non mi tracciate”. Facebook per motivarci ad accettare ci farà visualizzare una lunga lista di argomenti; la sintesi è che dai nostri dati dipende la sopravvivenza dei business pubblicitari. La Electronic Frontier Foundation, per i diritti digitali, dice che «in realtà il mercato pubblicitario online è controllato da un pugno di grandi aziende, tutte le altre sono alla loro mercè»; quindi viva la nuova opzione. C’è però un dettaglio non irrilevante: Apple ci domanda se vogliamo che gli altri ci traccino, ma lei cosa farà coi nostri dati? Douglas J. Leith del Trinity College ha dimostrato che finora «anche quando l’utente fa opt out, iOS e Android continuano a condividere i nostri dati con Apple o Google ogni 4,5 minuti». Facebook e Google temono che la mela voglia aggredire il mercato pubblicitario, costruendo un suo giardino dell’advertising. L’accusa colpisce il punto debole di Apple: da più parti (Zuckerberg ma pure l’Ue) è tacciata di abuso di posizione dominante; ieri in California è iniziato il processo Fortnite vs Apple; Epic Games, sviluppatore del gioco, vuol «scalfire un ecosistema che nuoce alla concorrenza». Apple dice di tenere alla privacy, Facebook al pluralismo: scegliere la privacy ma favorire un monopolio, o rinunciare alla riservatezza in nome di una concorrenza à la Zuckerberg? Sono falsi bivi. «L’alternativa c’è», dice Rossetti: «Apple deve chiedere il consenso anche per installare idfa». Poi va riformato il mercato ad tech: «Privacy significa garantire l’uso minimo indispensabile, dei dati, mentre il sistema attuale ci profila fino all’inverosimile». Il punto non è solo chi ne trae vantaggio (se un colosso o tre), ma se sia proprio necessario – e legittimo.

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