Dai giorni dell’assalto al Campidoglio Donald Trump è stato privato degli account da cui chattava col popolo sovrano. Buon per noi e peggio per il trumpiano che s’infuria, ma intanto accade che il potere di attizzare o spegnere le fiamme nei mass media sia nelle mani del Magaf (dalle iniziali di Microsoft, Apple, Google, Amazon, Facebook), il pugno di oligopoli americani che ha requisito l’Internet negli ultimi decenni accumulando fatturato a livello di trilioni.

L’Internet delle persone

Questo regno potrebbe intravedere il suo tramonto non per la virtuosa e democratica indignazione di eletti e popolani, che badano solo a scambiarsi messaggini, ma perché dopo l’Internet sociale “delle persone” (io, tu, il fidanzato perso nel passato) avanza quella “delle “cose”: l’elettrodomestico, l’automobile, il semaforo, la metropolitana, il cassonetto e tanti altri compagni della vita, trasformati in Pinocchi dalla magia di chip e sensori che li fanno reagire a quello che succede dentro e fuori. Come potrebbe l’internet delle cose mangiarsi quella delle persone e rivoluzionare l’equilibrio del business e del potere? Lo abbiamo capito scorrendo un pugno di tabelle di Antonio Sassano, davvero illuminanti.

L’Internet social, delle persone, è come una ragnatela che vede fermo al centro il ragno, cioè il potere del calcolo e dell’algoritmo che si collega agli utenti con i fili, gli propone le forme dell’agire, ne raccoglie gli input e spedisce a ognuno in contraccambio un risultato. Quest’andirivieni di segnali attraverso mezzo mondo, cavi sottomarini, nugoli di server, sorvoli di satelliti è al servizio della potenza di calcolo centrale, il cuore del sistema, sorvegliato dalle guardie armate Magaf e assai caro a Cia e Fbi, che anche così ci tengono sott’occhio. È un cuore ultrapotente, che sbriga milioni di richieste perché è velocissimo, ma non al punto da azzerare il tempo, detto “latenza”, che corre fra la domanda e la risposta. Il social ci fornisce comunque l’adrenalina di una specie di diretta della vita che non soffre per il ritardo del segnale e che non ci disamora del sistema perché siamo umani, mossi a socializzare attraverso lo scambio di concetti e sentimenti o anche solo di foto di gattini. Anche la pubblicità, la principale risorsa del sistema, non soffre il male della “latenza” e bada essenzialmente a finirci sotto gli occhi. Così sono contenti gli utenti, soddisfatti i pubblicitari e ultraricchi i monopoli che hanno costruito la baracca.

L’Internet delle cose

Quando si entra nel mondo delle cose “intelligenti” la musica è diversa perché gli oggetti vengono dotati di chip al fine di fronteggiare esigenze operative nelle quali ogni minimo istante di ritardo può essere fatale e provocare tamponamenti, crolli, incendi, alluvioni. Di conseguenza non c’è spazio per le attese, le risposte agli allarmi debbono essere istantanee, dritte e fulminee, corredate di diagnosi, prognosi e rimedi per quello specifico oggetto affidato allo scambio di informazioni con la rete. Ecco perché nell’Internet delle cose non esiste la lavatrice generica, uguale a tante uscite dalla fabbrica, ma quel preciso esemplare della serie, dotato del pedigree del comportamento d’ogni vite e giuntura che nelle concrete condizioni d’uso rivela il suo caratterino.

Un siffatto servizio, immediato, individuale e “intelligente”, non si concilia con la latenza di reazione propria della struttura accentrata dei social dominanti. Pretende invece: 1) che la rete di comunicazione sia molecolare, il che pare possibile solo col 5G che punteggia di fitte antenne il territorio; 2) che ogni oggetto accumuli il diario delle proprie prestazioni in una memoria a blocchi, in sostanza una block chain, inalterabile e inaccessibile agli intrusi, così da evitare scherzi e sabotaggi; 3) che l’algoritmo di una smagata intelligenza artificiale si sparpagli lungo la rete, a ridosso degli oggetti e si specializzi nel prendersi cura dei piccoli guai di un aspirapolvere o delle catastrofi incombenti sulle auto a guida autonoma.

Un nuovo internet

Un sistema tarato a misura delle esigenze estreme delle cose, può ben provvedere anche a fornire il social alle persone, per non dire di posta, messaggistica e telefonia. In più la tecnica della block chain, allargandosi dalla lavatrice al suo padrone, libererebbe quest’ultimo dall’ansia per la privacy e gli darebbe il potere di cambiare app e provider portandosi appresso come roba sua l’insieme dei file con le azioni compiute e i contatti.

Da qui, se non capiamo male, l’evidenza di una sfida inusitata agli attuali padroni del vapore: i Magaf e gli Stati Uniti, che ne sono patria e protettori. Con tanto di guerre politiche e commerciali attorno al 5G, tanto che la proprietaria di Huawei, l’azienda cinese pronta a realizzarlo, da oltre un anno è ostaggio nelle prigioni canadesi. Le motivazioni vanno dal furto di conoscenza al puro e semplice spionaggio, e quella signora forse non è un’anima innocente, ma è ovvio sospettare dello zampino americano volto anche a evitare che la tecnologia matura sia troppo rapidamente resa obsoleta dalla nuova sia sul piano tecnico che riguardo al business.

Nell’attesa che il nuovo internet, chissà come e chissà quando, appaia all’orizzonte, le comunità politiche e d’interessi dell’occidente sono ferme alle tematiche di copyright, privacy e tasse.

L’Unione europea ha adottato ormai da anni il Gdpr (General data protection regulation) che spalleggia il diritto d’autore, per frenare l’uso gratuito di contenuti a fil di rete, e ha enfatizzato la privacy, seppellendoci di moduli e intimazioni da accettare. Tutto è rimasto uguale a prima, ma forse l’intento era soltanto di piazzare qualche bastone europeo nelle ruote dei monopoli d’oltre Atlantico per meglio negoziare la questione delle tasse. Tutti i Magaf, come è noto, le eludono col semplice fare marameo dalla sede legale del paese europeo che gli offre un paradiso fiscale, per avere i suoi dannati quattro soldi danneggiando tutti gli altri. La questione pareva inamovibile, ma si è da ultimo sbloccata a partire dal governo americano. Come se ai Magaf, al di là di speculare sulle tasse, interessasse essenzialmente restare monopoli grazie al favore di governi, parlamenti e ministeri del Tesoro che, altro che antitrust, parteciperanno alla mungitura di monopolistici quattrini compiuta dagli oligarchi di quell’azienda.

Di sicuro, non si ravvisano fremiti antimonopolistici al momento, a meno di non prendere sul serio i progetti di legge emersi in questi giorni al Senato americano per chiedere ai monopoli una qualche dose di morigeratezza, come garantire parità d’accesso ai pubblicitari e astenersi dal risucchiare coi miliardi le start up potenzialmente concorrenti. Se sono queste le guerre contro i monopoli, non ci resta che sperare negli oggetti intelligenti.

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