Fino a qualche tempo fa, Facebook era considerato il migliore amico degli editori in crisi al tempo di internet. Era la prima metà degli anni Dieci del Duemila: qualunque rivista o quotidiano presente sul social network non doveva fare altro che pubblicare sulla sua pagina Facebook gli articoli giusti – magari investendo qualche soldo in pubblicità per aumentare i like – e il traffico sarebbe giunto immediatamente sul sito. Un traffico quindi costante, massiccio e che sembrava in grado di sostenere un modello di business basato sui click generati grazie ai social network.

È così, per fare l’esempio più celebre, che nasce BuzzFeed: testata online creata da Jonah Peretti per sperimentare con il concetto di “viralità” e diventata il suo lavoro a tempo pieno a partire dal 2011. “Come moriresti se fossi un personaggio di Game of Thrones?”, “10 cose che non sapevi di poter fare con un’anguria”, “Non crederai a quello che ha combinato Paris Hilton”, e tutti gli altri titoli che diventeranno poi noti come “acchiappa-click”, prendono una prima forma compiuta proprio grazie a BuzzFeed, che diventa in breve tempo una testata di straordinario successo, ma del tutto dipendente dal traffico di Facebook.

Affidarsi a Facebook

La decisione di affidarsi completamente al social network, al tempo, viene considerata una scelta saggia, indicativa del fatto che gli editori stessero finalmente capendo come sfruttare Facebook e gli altri per aumentare i loro languenti introiti. L’apice si raggiunge nel 2013: la piattaforma di Mark Zuckerberg, in competizione con Twitter per diventare la fonte d’informazione prediletta dagli utenti social, aggiusta l’algoritmo per favorire ulteriormente le testate online. Il traffico diretto da Facebook verso i siti web aumenta così del 69 per cento da agosto a ottobre di quell’anno. Lo stesso BuzzFeed titola: “Sarà Zuckerberg a salvare l’industria dell’editoria?”. Nel 2014, un report mostra come Facebook sia diventato, a livello globale, la fonte del 24 per cento di tutto il traffico ricevuto dai principali siti online. La capacità del social network di generare una quantità immensa di visite cattura definitivamente l’editoria. Anche in Italia si diffonde il fenomeno dei titoli sensazionalisti (“Clamoroso! Clicca qui!”) che faranno le fortune anche di molti blog e siti di infima qualità. È proprio a questo punto, quando ormai è stata ottenuta la dipendenza del mondo dell’informazione, che il giocattolo si rompe. Nell’autunno 2015, il traffico generato da Facebook crolla improvvisamente del 42 per cento per i dieci siti più importanti a livello mondiale. La versione statunitense dell’Huffington Post perde oltre il 60 per cento. La festa è finita, e col senno di poi era inevitabile: perché un social network costruito per tenere la gente il più a lungo possibile sulla propria piattaforma avrebbe dovuto premiare contenuti che portano gli utenti al di fuori di essa? Non a caso, l’àncora di salvezza che Zuckerberg in quel periodo lancia ai giornali è chiamata instant articles, una tecnologia che permette di leggere gli articoli restando all’interno di Facebook. Chi accetta di utilizzare questo strumento diventa di fatto un produttore di contenuti per conto di Facebook, ricevendo in cambio gli introiti della pubblicità visualizzata.

Non dura neanche questa soluzione: nel 2016 viene annunciato un ulteriore cambio dell’algoritmo che avrebbe penalizzato tutti i contenuti giornalistici, “instant” compresi. Zuckerberg ha infatti deciso di puntare sui video e stringe per questo accordi che prevedono il pagamento delle realtà editoriali per la produzione di live, brevi documentari e contenuti simili da pubblicare solo su Facebook. BuzzFeed, per restare al nostro esempio, riceve oltre tre milioni di euro per creare, tra i tanti, il celebre video dell’anguria che esplode (che raggiunge milioni di visualizzazioni in brevissimo tempo). Passa un anno, scoppiano mille polemiche sul modo in cui il social network conteggia le visualizzazioni dei video, gli inserzionisti minacciano cause e Zuckerberg cambia di nuovo idea, scegliendo di non rinnovare i contratti con nessuno. Risultato? Nel 2017, BuzzFeed annuncia di aver mancato i propri obiettivi di fatturato del 15/20 per cento e licenzia oltre 100 persone.

Il coltello dalla parte del manico

«A quel punto avevamo l’impressione che Facebook ci stesse prendendo in giro», racconterà più avanti un ex giornalista di BuzzFeed parlando con The Verge. Col passare del tempo, la situazione non migliora: nel 2017 il traffico proveniente dal social network cala di un ulteriore 15 per cento e nel 2018 ancora del 6 per cento. La stessa tendenza continua ai giorni nostri: secondo quanto riportato da Chartbeat, le visualizzazioni provenienti dal social network sono calate a livello globale di un ulteriore 7,3 per cento solamente tra maggio e giugno del 2021, con punte del 21 per cento per i principali siti statunitensi. Nel complesso, dal 24 per cento del 2014, il traffico generato da Facebook è sceso fino all’8 per cento odierno.

Un crollo che la dice lunga sulla strategia attuata dal colosso dei social network per legare a sé la maggior parte dei siti d’informazione e poi sfruttarli ai propri scopi. Molte redazioni, ormai, non possono comunque fare a meno di Facebook. Come fare allora per conquistare traffico? Le strade più seguite sono principalmente due. La prima prevede di pagare Facebook affinché dia visibilità agli articoli postati sulla piattaforma (sono gli articoli con la dicitura “sponsorizzato”, targettizzati in base agli interessi degli utenti); la seconda è invece quella di creare contenuti che vivono esclusivamente su Facebook (post lunghi, video, infografiche), con l’obiettivo di creare tramite quei contenuti il famigerato engagement e aumentare così la visibilità anche degli articoli e dei video che invece rimandano al sito della testata. Ma chi è che ci guadagna davvero da queste strategie? Ovviamente, Facebook. Che nel primo caso offre a pagamento lo stesso traffico che un tempo garantiva gratuitamente e nel secondo ottiene, senza dover fare nulla, contenuti giornalistici a volte anche pregiati, creati appositamente per la piattaforma da professionisti che lavorano all’interno delle redazioni. Facebook sembra ormai in grado di rigirarsi a piacimento i colossi dell’editoria globale.

Lo dimostra la recente disputa avvenuta in Australia, dove una legge discussa nei primi mesi del 2021 mirava a costringere Facebook a pagare gli editori per pubblicare i loro link sulla piattaforma. Un tentativo bizzarro (anche dal punto di vista logico) che si è rapidamente rivelato un boomerang. Messo alle strette, Mark Zuckerberg non ci ha pensato due volte e ha schiacciato il bottone rosso, bloccando la condivisione di qualunque link di testate australiane in tutto il mondo. Secondo quanto riportato sempre da Chartbeat, il traffico generato dai principali siti australiani è crollato del 13 per cento.

E così, nel giro di qualche giorno, il governo e gli editori australiani (a partire dalla News Corp di Rupert Murdoch) hanno siglato degli accordi con Facebook per fare sì che i contenuti giornalistici tornassero sulla piattaforma, dimostrando una volta per tutte – e se mai ce ne fosse stato bisogno – chi ha il coltello dalla parte del manico. Facebook ha infatti deciso di dare un contentino ai vari editori: seguendo la stessa logica di Google con il suo News Showcase ha lanciato – per ora solo negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Germania – il nuovo Facebook News, un programma che prevede di compensare con milioni di euro le dozzine di editori che hanno stretto accordi per pubblicare i loro contenuti sulla neonata sezione del social network.

Liberarsi di Facebook

Secondo la testata specializzata Digiday, il traffico garantito da Facebook News in questi mesi sarebbe consistente. Ma quanto durerà? Viste le vicende del passato, già adesso tra gli addetti ai lavori circola non poco scetticismo: «Adesso ci stanno lanciando addosso un po’ di soldi, ma sappiamo che l’anno prossimo potrebbero benissimo non esserci più», ha spiegato un anonimo dirigente sempre a Digiday. C’è modo di liberarsi dalla dipendenza da Facebook? Una strada, seguita da sempre più testate, è quella degli abbonamenti a pagamento. Si ritorna all’antico: poiché il modello basato sui click ha fallito – e legarsi mani e piedi all’algoritmo di Facebook si è sempre rivelato un azzardo – si torna dai lettori e si chiede loro di pagare una quota per avere in cambio informazione di qualità. D’altra parte, in epoca di Covid-19 gli introiti pubblicitari sono ulteriormente diminuiti e sono invece aumentati notevolmente gli abbonamenti, com’è sempre avvenuto in momenti cruciali. Nei primi mesi del 2020, per esempio, gli abbonamenti alle testate online sono cresciuti anche del 200 per cento in Europa e del 97 per cento negli Stati Uniti. Meglio approfittare di questa fonte d’introiti finché si è in tempo. Come fare, però, per pubblicizzare gli abbonamenti? Stando ai dati, la maggior parte del budget dedicato alla promozione degli abbonamenti alle testate viene destinato all’ex alleato diventato nel frattempo il peggiore nemico. Proprio così: i gruppi editoriali pagano Facebook per liberarsi della dipendenza da Facebook. E così, alla fine, a ridere per ultimo è sempre Zuckerberg.

© Riproduzione riservata