Non siamo certamente alla caduta degli dèi fra chi sta nell’Over the top (Ott) della tecnologia: Google, Apple, Meta, Microsoft e Amazon. Ma qualche scricchiolio sembra comunque di sentirlo.

Gli Ott raggiungono i clienti volando sopra gli sbarramenti dei confini, perché trasmettono la merce (film, motori di ricerca e servizi social) e non la spostano attraversando le dogane. Il “consumatore”, cullato da un algoritmo, ha un potere di scelta diretto e senza precedenti e i livelli di intermediazione del commercio e della politica si restringono.

Si tratta del primo caso, a parte la finanza, di liberismo totalmente realizzato, fondato sul suffragio quotidiano e universale di chi produce, offre, pubblicizza, cerca, posta e compra. In più, le grandi imprese “tecnologiche” sono in grado di espandere i ricavi dell’offerta in misura molto superiore al costo degli investimenti in software, server e collegamenti.

Grazie a questo connotato strutturale, hanno accumulato in pochi lustri patrimoni giganteschi grazie a margini operativi annuali di bilancio dell’ordine del 30 per cento sulle entrate (generate da pubblicità, noleggi di servizi e percentuali sulle vendite). Queste imprese ultra liquide, cioè con la cassa sempre colma, sono fra le poche, se non le uniche, che possano serenamente galleggiare anche nella bassa congiuntura e, anzi, coglierla come occasione per fare shopping di imprese deprezzate dalla Borsa.

Il tutto incarnando, per di più, un’idea di generale progresso garantito dai loro servizi e dalla loro infrastruttura che sbaragliando spazio e tempo può migliorare gli affari di chiunque (a parte le vittime scontate di ogni progresso tecnologico di tipo distruttivo, nel senso che per creare il nuovo deve di necessità distruggere quanto lo precede).

Scricchiolii

In tanta mirabile armonia, ecco però un paio di recenti scricchiolii. Netflix (Ott anch’essa, anche se minore e limitata alla distribuzione di video on demand) qualche giorno fa ha convenuto di pagare al fisco italiano 55,8 milioni di euro. Così ha riconosciuto di non essere un’impresa che sta fuori confine e da lì trasmette le sue cose.

È vero che non esistono organizzazione e personale, ma in compenso l’Italia è disseminata di attrezzature (dette Cdn – Content Delivery Network) che fungono da botteghe automatizzate dei titoli che scegliamo e che devono di necessità starci vicine, altrimenti le lunghe attese ci rispedirebbero al cinema o al noleggio di cassette. Per quanto ne sappiamo, strutture analoghe ce l’ha per analoghe ragioni qualsiasi Ott della ricerca, dei social e della intermediazione commerciale. Così il precedente nato con l’ammissione da parte di Netflix si rifletterà sui calcoli del tech business cambiandolo da multinazionale in territorializzato e mutandone alla base il rapporto con gli stati.

Il secondo scricchiolio non riguarda le tasse sull’on demand, ma proviene anch’esso dal settore del consumo audiovisivo, ed è ancora Netflix a fare da pietra dello scandalo. Pare infatti che il numero di abbonamenti, giunto attorno ai 200 milioni, abbia cessato di aumentare.

La Borsa ha affondato il titolo, perché ha visto svanire di colpo la crescità di fatturato e profitti che sperava e s’è fatto contemporaneamente grigio l’orizzonte cui guardavano i boss di Hollywood, pronti a lanciarsi ognuno per suo conto (Disney e Warner in primo luogo) alla conquista e spartizione di miliardi di abbonamenti streaming.

Sicché, spulciando nella stampa americana, si percepisce, sebbene formulata ancora sottovoce, la domanda: «Abbiamo bruciato le navi del nostro vecchio business – la tv e le sale che, certo, declinano, ma intanto continuano a fruttare – per buttarci alla rincorsa, costi quel che costi, di uno streaming che non ci farà mai rientrare delle spese?».

Il contenuto regna

In sostanza i grandi del contenuto audiovisivo si trovano fra i vecchi business in declino e l’Eldorado della piattaforma che si ridimensiona. Non stupisce quindi che abbiano tosto messo mano al taglio delle spese, come nel caso del varo di CNNplus in streaming: a meno di un mese dall’esordio è stata chiusa per riprendere possesso dei 500 milioni già destinati al budget. Quanto al grosso del problema, ovvero quale fiction produrre e come distribuirla, qualcuno suggerisce di riprendersi un tratto del passato, rilanciando lo star system come risorsa strategica del business.

Lo star system tornerebbe ad essere in questa visione il sistema di semidèi che alimenta il moderno mito popolare e spinge la gente ai botteghini. Così qualcuno legge il fatto che Top Gun Maverick (con Tom Cruise divo e arzillo) è stato accolto a braccia aperte a Cannes e presentato al mondo con tutte le trovate cinematografare di una volta: la patrouille acrobatica di Francia, il prestito di una vera portaerei, le evoluzioni autentiche di un super cacciabombardiere.

Un altro mondo, o una spettacolare marcia indietro, rispetto al mondo di attrici e attori, super bravi ma fungibili, soffocati dalla forza dei caratteri che fondano le serie dell’on demand, a partire da quelle più famose. Chi ricorda, ad esempio, nome e cognome della bionda interprete di Daenerys Targaryen, nata nella tempesta e madre di tre draghi in una volta? O come potrebbe mai l’algoritmo, che se la cava così bene con “le serie in serie” cogliere i battiti di un cuore spettatore alla comparsa del divo che in quanto tale lo trascina alla visione?

Ce ne sarebbe anche per la tv tradizionale giacché qualcuno immagina che sarebbe prudente non darla per morta e seppellita. Intanto perché ha la pelle dura di chi profuma di diretta e ci assicura compagnia, e poi perché si presta anch’essa a investimenti in chiave mitica, con i quiz che rifondano le vite, gli Eurocontest, gli inviati nelle guerre, il protagonismo auto contemplativo del popolo in reality.

Il calcolo di Hollywood, se le voci che circolano sono vere, è in fondo quello antico: se controlli la distribuzione è molto meglio, ma innanzitutto ricorda che il re del sistema è il contenuto e la tecnologia è nata per servirlo.

© Riproduzione riservata