Nell’economia dei social il tempo del consumatore è l’oggetto conteso dalle piattaforme per spremerne quattrini. Esattamente come avviene nella tv tradizionale, giacché sia il mezzo antico sia quello più recente vendono, in sostanza, la stessa merce: l’uno nel palinsesto l’altro nella timeline. Qui si cela la vera differenza, che riguarda i rapporti fra chi commissiona i prodotti, chi li edita e chi li distribuisce.

Nella tv tradizionale il “prodotto” è costituito dal palinsesto stesso che incornicia conduttori, star, e telefilm in un unico discorso, al servizio di un accurato posizionamento identitario. La timeline invece è un assemblaggio tecnico di prodotti provenienti da fonti di prodotto immesse dall’utente, sulla base di una qualche affinità accidentale o elettiva con gli autori. Nella tv tradizionale l’identità di mercato è come quella di Napoli o Parigi, che sovrasta le connotazioni dei singoli abitanti. Con i social siamo piuttosto ai libri ammessi allo scaffale sulla base dell’incontro fra il singolo autore e gli interessi dell’utente.

Ecco perché, fin dall’alba del sistema, l’autore del contenuto (quel tipo di video, quel ramo d’interesse) è come la singola bottega dentro un centro commerciale allestito a mezzo d’algoritmo e chiamato Google, Facebook, YouTube, Instagram, TikTok e così via. La coscienza di questo caratteristico rapporto si è fatta strada progressivamente nelle teste degli autori.

In principio gli pareva molto mettere in circolazione immagini e pensieri, manicaretti, pupi e gatti. Inoltre lo sforzo dei nascenti giganti tecnologici puntava a massimizzare la funzionalità dell’algoritmo nell’orientare l’utente in mezzo a un’inaudita abbondanza di prodotti. S’erano trasferite infatti in rete intere biblioteche e archivi d’ogni genere. Per non dire del massiccio contributo quotidiano generato dalla stessa attività corrente degli utenti.

Poi dalla massa sono emersi gli influencer come prolungamenti social del marketing di diversi tipi di consumo, e hanno cominciato a guadagnare sia dagli sponsor sia spartendosi proventi pubblicitari generati a mezzo d’algoritmo. Gli autori in senso stretto in questo tipo di sistema restavano invece senza il becco di un quattrino perché il cliente non è il consumatore diffuso, ma l’appassionato, trascurabile alla resa dei contatti, ma prezioso quando si ragiona di abbonamento, biglietto, prezzo in copertina.

Piattaforme su misura

Come ha constatato (la segnala fra i tanti il New York Times) Summer Solesis, l’americana di 26 anni che, ridotta a girarsi i pollici a causa del lockdown, si è tuffata su Instagram a mostrare i piedi. I video vanno dal mero documento al provocatorio, con le piante dei piedi in primo piano e sullo sfondo un dito medio alzato, fino all’ipnotico di un lavacro dei piedi prolungato col dettaglio del peeling dei talloni. Giunta a raccogliere 20mila follower senza incassare un soldo, Summer si è trasferita su OnlyFans («solo per appassionati»), una piattaforma tutta nuova che funziona come un club dove si paga per entrare. Qui finalmente i piedi producono quattrini, pari all’80 per cento dei 10 dollari per mese che paga chi si collega per vederli.

Un centinaio e passa di feticisti sparsi per il mondo assicura a Summer un incasso annuale di cinquemila dollari. Ma siamo solo al primo anno, e la cifra raddoppia col merchandising degli effetti personali, a partire dai calzini non lavati (alla tariffa di 10 dollari per ogni giorno di uso, purché consecutivo).

Opportunità simili sono disponibili in altri settori: Substack (settore newsletter) oltre a trattenersi il 10 per cento sulle sottoscrizioni, consente agli autori di andare altrove portandosi appresso la lista dei sottoscrittori, Twitch (dove si segue chi gioca in streaming) lascia ai campioni il 50 per cento dei ricavi, Cameo (video di celebrities) destina agli autori i tre quarti degli introiti

Cercare autori

Se Summer, americana, è un caso tipico da coda lunga del consumo, dove non c’è offerta che non incontra una anche minima clientela, tutt’altro è l’insegnamento del ventenne Khaby Lane, senegalese e lombardo, arrivato di colpo a muovere un traffico di 50 milioni di follower, almeno pari a quello cui è giunta con anni di lavoro Chiara Ferragni. Uno così ottiene da TikTok e soci quel che vuole, ma anche lui può essere tentato di passare a piattaforme che gli assicurino ricavi da vendite personalizzate anziché quote del bottino pubblicitario. Khaby ormai tutti l’intervistano perché il suo è un exploit che fa notizia. Ma ci ha colpito che per una testata antica e illustre l’abbiano intervistato in coppia il redattore specializzato e lo stesso direttore. Lui un ragazzo, loro due scaltriti lupi di giornale, ma gli si sono posti ai lati imitandone il gesto rituale (le palme rovesciate avanti a dire “non c’è altro”) con cui Khaby mette il suo sigillo ad ogni video. Vuoi vedere, abbiamo pensato, che anche le testate arrivano a contendersi gli autori delle piattaforme pur di dare un senso ai propri periclitanti siti online dove cercano un futuro dopo che avranno venduta l’ultima copia in carta?

Certo, le Chiara Ferragni e i Khaby Lane non nascono come le margherite a primavera. Sono autori veri che configurano, piaccia o non piaccia, un’idea di mondo. E magari corrono loro stessi qualche rischio entrando a far parte di mondi in cui la proposta di senso prevale sul clickbait.. Ma, sia come sia, il processo di disintermediazione del rapporto fra autori e utenti pare ormai dotato di forza eccezionale: funziona per gli esordi (il caso della Summer americana), funziona anche per allungare la prospettiva d’attività delle social star destinate anch’esse a crescere negli anni e ad evolvere nelle idee. Forse siamo ai primi rintocchi della campana che segna un ridimensionamento della funzione dei più antichi social, come già è avvenuto in tv con il subentro delle Netflix accanto alla tv tradizionale.

Il tutto mosso dalla vecchia legge del mercato – content is the king – per cui alla fin fine è il contenuto ciò che conta.

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