«La comprensione è soltanto un caso particolare del malinteso»: lo sosteneva il linguista Antoine Culioli, rovesciando il senso comune che vorrebbe che il malinteso fosse un’eccezione. I social network sembrano confermare la sua intuizione e forse non del tutto per caso: qualcuno dice che sono stati progettati così, apposta per farci discutere, arrabbiare, litigare. Ma che fatica.

Dipendere dai social

Poco a poco, nel corso dell’ultimo decennio, ci siamo accorti che stare online ci fa male. Ruba tempo, toglie concentrazione, rende irrequieti, suscita nervosismo quando siamo confrontati a opinioni che ci disturbano, provoca situazioni di conflitto quando agli altri non piacciono le nostre. Esiste ormai un’ampia letteratura sulle conseguenze politiche e sociali della rete.

E se ne facessimo a meno? Era la provocazione di Christian Rocca in un libro di un paio di anni fa, intitolato proprio Chiudete Internet. Se chiudere letteralmente l’intera Internet appare un po’ eccessivo, nulla ci impedisce di chiuderla per noi stessi: in teoria basta premere un bottone. Ma allora perché lo facciamo così poco? Il problema è che sappiamo anche quanto i social ci fanno bene.

Ne dipendiamo per la nostra vita sociale, lavorativa, affettiva, intellettuale – anche perché in tempi pandemici le alternative non sono tante. Bisognerebbe, allora, trovare un modo di conservarne i benefici senza pagarne i costi. Verranno col tempo, si suppone, delle regole d’igiene che miglioreranno il nostro rapporto con la rete.

Per ora ognuno ha le sue: situazioni e orari nei quali non accediamo allo smartphone, applicazioni concepite per bloccare altre applicazioni, salutari autocensure per frenarci quando ci viene l’impulso di scrivere un commento che potrebbe scatenare una guerra mondiale.

In compenso la vecchia “netiquette”, il codice di comportamento in uso nei forum degli anni Novanta, non soltanto è caduta in disuso ma suona come la reliquia di un’epoca superata. Nel frattempo, non ci resta che arrangiarci come possiamo per limitare il danno. Accidenti, è difficile come smettere di fumare.

Bisogna essere realisti: se non fosse per i social, non scriverei nemmeno su questo giornale. È attraverso i social che, una decina di anni fa, ho iniziato a far leggere le mie cose. In principio erano i blog, e quei cinque o dieci lettori che mi commentavano erano già più di quanto potessi sperare.

Poi sono venute le riviste online, che di lettori ne avevano magari qualche centinaio e poi qualche migliaio… Insomma sono uno dei miracolati della “disintermediazione”, assieme ad altri della mia generazione che scrivono su queste pagine. I social hanno permesso di diversificare le voci, e in certi casi hanno dato voce a chi non ne aveva nessuna.

Ed è anche questo che inevitabilmente crea tensioni: se nel vecchio mondo ognuno leggeva il suo giornale e al massimo borbottava tra sé e sé, oggi tutte le divergenze d’opinione sono esposte in piena luce, l’infinito spettro dei codici linguistici intrecciati tra loro in ogni momento, le memorie di oppressione e le rivendicazioni politiche materia di dibattito quotidiano. Semplicemente non eravamo pronti a gestire una trasformazione del genere.

Codici interpretativi

La ragione di questo casino tutto sommato è semplice. Per decodificare un testo abbiamo bisogno di un codice interpretativo, ma di codici interpretativi ce ne sono tanti quante le persone che lo leggono. E ogni interpretazione produce un significato leggermente differente.

Peggio ancora: quando ci rivolgiamo a un pubblico specifico, conosciamo pressapoco i codici con cui verrà interpretato il nostro discorso e sapremo ottimizzare l’efficacia della nostra comunicazione; ma su Internet è diverso. Perché come lungo un piano inclinato possiamo essere certi che la bottiglia contenente il nostro messaggio scivolerà altrove, in contesti interpretativi imprevisti.

Il caso più drammatico è quello delle famose vignette blasfeme pubblicate su Charlie Hebdo: il giornale aveva una tiratura relativamente limitata – circoscritta a un pubblico di francesi laici dall’umorismo greve – ma è stato facile riprodurre e far circolare quelle immagini perché arrivassero fino in Libia o in Indonesia presso un pubblico più suscettibile.

Non sono soltanto i virus a propagarsi più rapidamente grazie alle nuove tecnologie, non è soltanto il battito d’ali di una farfalla a scatenare terremoti dall’altra parte del mondo. Possiamo chiamarla “iper-pubblicità”: la condizione per cui ogni testo rischia presto o tardi per finire sotto gli occhi di qualcuno che non lo capirà o se ne sentirà offeso. Personalmente è una responsabilità di cui farei volentieri a meno.

«Tu, che mi leggi, sei sicuro di intendere la mia lingua?» È la domanda posta dal narratore nel celebre racconto di Jorge Luis Borges La biblioteca di Babele, che solleva il paradosso di un infinito numero di testi decifrabili in un infinito numero di lingue.

D’altronde ci aveva già avvertiti Platone nel Fedone: l’invenzione della scrittura da parte del dio Teuth è contemporaneamente un farmaco e un veleno, perché facendo circolare i testi senza il loro estensore – in grado di spiegare e precisare – rischia di produrre interpretazioni aberranti. Con buona pace di Aristotele che fonderà la metafisica sull’idea che ogni nome «esprime un determinato significato e uno solo»: beata ingenuità.

All’epoca ci voleva comunque lo sforzo di uno scriba o il passaggio di un papiro di mano in mano; oggi basta un click per raggiungere centinaia di migliaia di lettori, «portatori di opinioni invece che sapienti» come scriveva quello snob di Platone.

Ma la compenetrazione dei codici è ovunque in una società multiculturale, basti pensare a quello che può succedere quando un cinese pronuncia l’intercalare “na ge” che suona pericolosamente simile a un insulto razziale in lingua inglese (cosa può succedere? Ad esempio rischiare la sospensione, come è accaduto al professor Greg Patton dell’Università del South Carolina per aver tenuto un'improvvida lezione sugli intercalari nel mondo).

«Quando uso una parola significa quello che ho deciso che significhi» s’illude l’ovetto Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio, il romanzo di Lewis Carroll che prosegue le avventure di Alice nel paese delle meraviglie. Gli risponde a stretto giro la bambina: «Il problema è se puoi fare che le parole significhino tante cose diverse».

Probabilmente tendiamo a sottovalutare quanto sia complessa e stratificata l’operazione che ci porta a estrarre un significato da un testo. Le parole possono essere polisemiche, i registri retorici innumerevoli, gli impliciti e sottintesi sempre in agguato. Bisogna tenere conto dei contesti e dei paratesti, inserire ogni stringa di testo nella sequenza delle puntate precedenti.

E alla fine accettare che a ogni testo corrispondono un’infinità di interpretazioni possibili, chiedendosi semmai: com’è possibile allora che talvolta si abbia l’impressione di essere compresi?

Probabilmente è questa la vera illusione. Possiamo al massimo sperare che per qualche coincidenza le nostre parole evochino in altri qualcosa di simile al nostro pensiero, e che questo muova in loro un comportamento che corrisponde alle intenzioni pragmatiche della nostra enunciazione: ridere, baciarci, portarci una zolletta di zucchero.

Finché non ci siamo intrappolati in questa gigantesca macchina che produce malintesi, mobilitando un’enorme quantità di risorse prima per trasmettere 280 caratteri da una parte all’altra del mondo, poi per interpretarli in un grande rito collettivo, infine per gestire lo shock emotivo legato all’incontro tra un mittente e un destinatario che non avrebbero mai dovuto incontrarsi.

Spegnere i social

Il mondo nuovo assomiglia incredibilmente a quello antico. E le preoccupazioni sorte dal progresso tecnologico non sono poi dissimili da quelle che gli antichi ebrei avevano consegnato al mito della torre di Babele: gli uomini che prima parlavano una sola lingua d’un tratto cessano di capirsi e iniziano a parlare nel loro rispettivo dialetto.

La Bibbia non lo racconta ma c’è da credere che prima di capire di avere a che fare con codici differenti gli uomini abbiano perso tempo a litigare a causa dei numerosi malintesi, magari per come la parola aramaica per salutare suonasse fin troppo simile all’organo genitale maschile in babilonese. L’orrore della polisemia aveva invaso il mondo; dopo la caduta degli uomini era seguita la caduta del linguaggio.

Molti secoli più tardi nel romanzo di Carroll anche il povero Humpty Dumpty, fautore della polisemia, cade dal suo muro e si rompe in mille pezzi – una caduta che, secondo Martin Gardner, «Suggerisce la caduta di Lucifero e quella dell’Uomo». Per evitare di romperci la testa pure noi, faremo meglio a darci una regolata. Per proteggerci dalla pandemia dei segni, sarà forse opportuno coprirsi la bocca e rispettare il distanziamento sociale.

Il problema diventa sempre più urgente via via che il mondo si trasforma in una polveriera: come posso evitare con le mie parole di ferire, offendere, far arrabbiare, farmi odiare? Il massimo principio di precauzione imporrebbe semplicemente di tacere, spegnere i social, fare una passeggiata dopo cena – no scusate, questo è illegale.

Ma ci siamo capiti. Bisognerà forse dichiarare conclusa la parentesi liberale dell’avventura umana e ammettere che entriamo in una fase di tensioni che richiede maggiori accortezze. L’orrore della Storia, con tutte le ingiustizie di cui è intessuta, ci è cascato addosso in un colpo solo.

 

«Appare sempre più urgente, per la salute mentale di noi tutti, liberarci progressivamente dai social. Trovare altri mezzi per comunicare, migliorare il nostro impiego del tempo. Scomparire poco a poco». 

Sono le parole che ho scritto qualche giorno fa su Twitter. Mi hanno risposto dicendomi che non mi trattiene nessuno, che era contraddittorio solo il fatto di scriverlo, che volevo limitare la libertà di parola.

Eppure forse avevo appena trovato la soluzione: proprio ora che ho scritto quel post e quest’articolo, mi si impone un dovere di coerenza. Lascio ai lettori il compito di bacchettarmi quando sgarro, chiudo tutto e corro subito a leggere un fumetto.

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