Ted Striphas è tra i massimi esperti nello studio delle relazioni tra lingua e tecnologie cognitive. «Solo una contro-rivoluzione lunga farà regredire gli eccessi peggiori del tecno-autoritarismo»
Ted Striphas è tra i massimi esperti nello studio delle relazioni tra linguaggio, tecnologie cognitive e vita quotidiana. Attualmente insegna Media Studies alla University of Colorado Boulder e il suo ultimo libro, La cultura algoritmica prima di internet, è uscito in Italia per Mimesis alla fine del 2024.
Partiamo proprio dal concetto cardine su cui sta lavorando da anni. Cosa si intende per «cultura algoritmica»?
Definisco la «cultura algoritmica» in primo luogo come l’uso di processi computazionali per ordinare, classificare e dare priorità a persone, luoghi, oggetti e idee; in secondo luogo, come i repertori di pensiero, condotta, espressione e sentimento che scaturiscono da, e ritornano in, questi processi. Il punto è apprezzare quanto, nell’era digitale, società e computing siano interconnessi.
Non è una contraddizione in termini coniugare il mondo della cultura con quello della computazione?
Convenzionalmente, per “cultura” si intendono i costumi, i sistemi di simboli e gli stili di pensiero che distinguono l’homo sapiens da tutti gli altri animali, consentendoci di trascendere la nostra condizione naturale.
Alcuni pensatori hanno anche suggerito che la tecnologia ha un’influenza corruttrice sulla cultura, e quindi che l’una è antitetica all’altra. Ne è testimonianza l’angoscia per la cultura di massa. Questa concezione è peculiarmente moderna.
Prima del 1800, la cultura si riferiva alle tecniche di coltivazione delle piante e del bestiame. L’oggetto della cultura non era principalmente l’uomo, ma l’agricoltura e la tecnologia. Con la cultura algoritmica stiamo assistendo al riemergere dell’elemento tecnologico, ma in un modo che mette in dubbio l’idea che solo l’uomo sia in grado di svolgere un lavoro culturale.
Se esiste una cultura algoritmica, dovrebbe essere possibile educare ad essa.
Si tratta, in parte, di una questione di alfabetizzazione tecnologica. Dobbiamo educare le persone, giovani e meno giovani, a capire che il processo decisionale algoritmico non è oggettivo: codifica silenziosamente ogni sorta di valori e presupposti.
La domanda è: a quali valori viene data la priorità, perché e a scapito di chi? Ma il problema va oltre l’alfabetizzazione tecnologica. Nel libro sostengo che il significato di cultura si sta spostando in modi che abbiamo appena iniziato a comprendere. Non si può educare qualcuno alla cultura se non si inizia a conoscere bene la natura dell’oggetto.
La sua ricostruzione della «cultura algoritmica» affronta problematiche sociali che hanno una storia di lunga durata (questioni di genere, colonialismo, guerra, normatività familiare e sessuale, politiche governamentali, ecc.). Come si ripropongono oggi mediate dagli algoritmi?
La tragedia della cultura algoritmica è che è stata immaginata originariamente come una soluzione umana ai tipi di problemi sociali allora identificati. Negli Stati Uniti l’idea inizia a prendere forma dopo la seconda guerra mondiale, con gli orrori dell’autoritarismo e del genocidio in Europa ancora freschi nella mente delle persone.
La paura rossa degli anni Cinquanta, in cui si presumeva che i comunisti si fossero infiltrati nelle istituzioni statunitensi, ha anche mostrato quanto rapidamente un governo democratico potesse prendere una svolta autoritaria. Entrambe le serie di eventi hanno indotto a chiedersi se ci si potesse fidare di attori umani per governare la società.
Una soluzione era usare la cultura come un controllo sul potere dello stato; un’altra era trovare un sostituto imparziale, i computer, che prendesse decisioni per noi. Queste soluzioni si scontrarono verso la fine del XX secolo, ma rafforzarono, anziché rimediare, gli stessi problemi che avrebbero dovuto affrontare.
Come vede l’impatto della Ia generativa in particolare nel mondo della scuola?
Attualmente siamo nel bel mezzo di una transizione in cui il processo decisionale algoritmico sta cedendo il passo all’Ia generativa (G-AI). Mentre la prima segue regole e percorsi predefiniti, la seconda agisce in modo più contestuale e creativo.
La G-AI sta già rendendo la scrittura, l’espressione artistica e altre pratiche culturali più veloci e facili per gli studenti, proprio come le calcolatrici hanno fatto per la matematica 50 anni fa.
Un problema chiave è oggi l’omogeneità che stiamo iniziando a vedere nelle opere create dall’IA: che cosa succederà quando il prodotto generato dalle macchine diventerà la norma culturale de facto? Un’altra questione è l’impatto ambientale della G-AI, che diventa sempre più diffusa nel settore dell’istruzione e non solo.
Assistiamo oggi a molti movimenti politici che – anche saldandosi nel mondo attraverso le piattaforme di rete – tendono a rigettare l’apertura agli altri e a omologare al massimo le diversità culturali. Nel farlo vi è addirittura la pretesa di mettere al bando le nuove parole che le supportano. Quanto è importante per noi il linguaggio?
Quando i regimi autoritari vietano l’uso di termini come “D.E.I.” [Diversità, Equità e Inclusione], “oppressione”, “cultura”, ecc. non si tratta mai strettamente di singole parole. Si tratta di tagliare fuori la visione del mondo che essi esprimono e incarnano collettivamente.
Ciò che sfugge agli autoritari, tuttavia, è che l’esperienza umana non è riducibile al linguaggio. Si può bandire “oppressione” dai documenti governativi, ma le persone continueranno a percepire che le loro vite sono intollerabilmente limitate. E poiché le persone sono intrinsecamente creative, escogiteranno nuove forme di espressione per identificare, esternare e sfidare queste esperienze.
Le nuove tecnologie sono sempre state circondate da opinioni che oscillano tra ottimismo e pessimismo. Ultimamente, però, nell’opinione pubblica sembra prevalere un generale sconforto di fronte a una cultura che, avvolta da automatismi algoritmici, sembra sfuggirci di mano. Può l’educazione – come processo di reverse engineering – giocare un ruolo chiave nel riprenderne il controllo?
L’istruzione è sicuramente una componente critica. Tuttavia, è solo un elemento di una lotta più ampia e duratura contro il tecno-autoritarismo. Come ho mostrato nel mio ultimo libro, le basi del mondo che abitiamo oggi sono state gettate episodicamente a partire da almeno 150 anni fa. Raymond Williams la definisce una «lunga rivoluzione».
L’educazione e la lotta sono vitali per far regredire alcuni dei peggiori eccessi del tecno-autoritarismo, ma ci vorrà un’analoga “lunga rivoluzione” per produrre un mondo più libero e meno tecno-centrico.
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