Il mio libro Metamorfosi, Einaudi Stile Libero, muove da un’idea molto semplice: la vita di tutte le specie è una, e una sola. Poco importa che si tratti di cani, gatti, querce, lecci, soffioni, platani, maiali, porcini, falene, streptococchi: tutte le forme di vita sono figurazioni di una medesima sostanza, modi accidentali che non smettono di crearsi l’uno dall’altro e di distruggersi l’un l’altro.

La vita non è che un’unità cosmica che stringe la materia della Terra in un’intimità carnale. Siamo tutti carne della stessa carne, indifferentemente dalla specie cui apparteniamo.

La prima edizione del libro è uscita in Francia il giorno in cui le librerie hanno chiuso le porte. Come in una favola, una piccola creatura – un virus – aveva invaso tutte le città francesi e il resto del mondo. Il paradosso era evidente: le ultime pagine del libro, scritte diversi anni prima, invitavano a considerare i virus come forma paradigmatica di metamorfosi e ad assumerli come modelli per pensare il futuro.

Vendetta cosmica

Quasi per un’inspiegabile vendetta cosmica, vissuta da parte mia con terrore e tremore, adesso un virus ci impediva di percepire qualsiasi futuro. Eppure gli avvenimenti che hanno accompagnato l’inverno del 2020 hanno indirettamente dimostrato la tesi sostenuta dal mio libro.

Nessun altro evento era riuscito a unificare il mondo in questo modo. Non solo da un punto di vista storico: raramente un medesimo fatto aveva potuto trasformarsi in esperienza condivisa da esseri umani che appartenevano a contesti geografici, culturali, economici e sociali così differenti.

È come se tutta la specie umana condividesse una medesima storia: ed è sempre e solo la condivisione di un passato comune a permettere la costruzione di un futuro comune.

Il virus ha prodotto una seconda globalizzazione dopo quella che si era compiuta nella prima modernità attraverso le conquiste coloniali e la costruzione di una sola rete economica. Un minuscolo corpo appena vivente ha unito la carne di tutti gli esseri del pianeta, non solo umani: ha dimostrato che quanto accade ai corpi a Dakar o a New Delhi avrà conseguenze immediate sui corpi di New York.

In una manciata di mesi ha imposto al pianeta un nuovo universalismo di fronte al quale tutte le strutture politiche della modernità appaiono obsolete: la globalizzazione delle carni (non solo umane) rende del tutto ridicola la molteplicità degli stati e anche la pretesa delle tradizioni culturali di poter produrre un’identità superiore a quella di una politica trasformata in carnevale.

Carne riciclata

Questa universalità è non più politica, logica, economica o sociale: è l’unità della carne di tutti i viventi del pianeta, in tutta la loro vulnerabilità. Eravamo abituati a considerare la nostra carne, la parte viva e cosciente del nostro corpo, come qualcosa di privato, al punto che se avessimo dovuto risvegliarci dopo la morte sarebbe stato solo per riprendercela e continuare ad avere la stessa voce, la stessa memoria, la stessa maniera di vedere il mondo.

Ci abbiamo creduto per molto tempo. Eppure bastava prestare attenzione alla nostra nascita per capire che la nostra carne, come quella di qualsiasi altro essere umano, è letteralmente carne riciclata, che ha già vissuto almeno una volta nel corpo di un altro. E bastava anche pensare a ogni volta che mangiamo per capire che il nostro corpo è una strana macelleria cosmica. Non solo siamo sempre la carne di qualcun altro, ma siamo carne che non ha mai una identità certa e definitiva.

Per molto tempo ci è stato detto che la comunità politica era misurabile, composta da un numero preciso di corpi, quelli che si generano a vicenda: il concetto di stato moderno ha sostituito il mito della resurrezione della carne – che ci prometteva una carne privata – con la mitologia del popolo, che ci offriva l’illusione di una carne collettiva e tuttavia esclusiva, privilegio per alcuni, vergogna per altri.

Per molto tempo abbiamo disegnato linee più o meno casuali sul terreno di queste grandi zattere mobili che sono i continenti per continuare a credere in questo mito. Poi è scoppiata la pandemia: è bastato un virus per dimostrare che tutti i popoli, non solo umani, condividono la stessa carne.

Per mesi abbiamo continuato a cercare di separare i corpi l’uno dall’altro. Eppure, più vivevamo lontani, più evitavamo di baciarci, accarezzarci, dormire insieme, più l’evidenza diventava forte. La carne dell’altro era perfettamente identica alla nostra.

Un semplice respiro condiviso era sufficiente a fonderle in un unico destino.

Ancora una volta con dolore e violenza ci siamo resi conto che la molteplicità di identità che proiettiamo su questa unica carne è illusoria: la pluralità di etnie, culture, storie, nazioni, generi, lingue non potrà mai dividere la carne. Tutte le specie sono un unico demos, un solo popolo che condivide una sola carne.

Un nuovo Leviatano

Oggi l’ecologia è chiamata a costruire un nuovo Leviatano, non più, come nelle mitologie dello stato moderno, attraverso un contratto, un atto di volontà che costituisce un potere collettivo, ma attraverso un incontro che la volontà non può evitare e che ha ridotto i vecchi stati a una condizione di impotenza.

Qualsiasi sforzo per salvare un solo popolo contro gli altri e rompere così l’unità del nuovo Leviatano è destinato a fallire. C’è solo una carne. E la politica è l’arte che produce e rafforza l’unione della carne.

Non sono solo le nazioni a essere diventate inutili, obsolete, come le rovine archeologiche delle città antiche. Anche la nozione di specie andrebbe ripensata e messa da parte. Dopo esserci fatti la guerra per le più piccole differenze, ci troviamo schiacciati dall’evidenza di una comunità di carne senza proprietà e con mille identità simultanee, che vuole solo una cosa: la pace della carne, la pace nella carne. La politica del futuro non può che partire da qui.

Conoscere il futuro

Per questo bisogna capire che, se vogliamo conoscere il futuro, non dobbiamo alzare gli occhi al cielo, ma abbassare lo sguardo verso quel pezzo di cielo che è il nostro pianeta. Tutto quello che appare sulla Terra è futuro anticipato in forma di scommessa. Tutti i corpi della Terra sono un fondo speculativo. La Terra stessa è un corpo futuro e futurista: il futuro di tutti i corpi. Questo è l’insegnamento da trarre.

Non dobbiamo rispettare la Terra per la sua fragilità, dobbiamo invece imparare a viverla in un modo diverso, poiché il pianeta è la nostra futura carne.

La carne di domani, di dopodomani e di mille milioni di anni a venire.

Se la Terra è il nostro futuro, questo significa che il futuro non viene mai dall’esterno. Al contrario, c’è un futuro solo perché non c’è un fuori, perché tutto è già dentro, contenuto in questo pianeta e tutto in superficie. Il futuro è la pelle del pianeta, in continua trasformazione: è il bozzolo della sua metamorfosi.

Non è per le sue dimensioni che la Terra è il corpo del futuro. Il futuro non è mai qualcosa di grande, di immenso. Non è una meteora che minaccia di distruggere la massa del pianeta. L’avvenire appartiene alla Terra come qualcosa di più piccolo del più piccolo dei suoi abitanti. È più simile al modo di vita dei virus che a quello degli uomini o dei loro monumenti. Il futuro è assolutamente microscopico; può vedere la vita nella più piccola porzione di materia.

Con una certa semplificazione, potremmo dire che un virus è un po’ il meccanismo chimico, materiale, dinamico di sviluppo e di riproduzione di tutti gli esseri viventi, ma che esiste al di fuori della struttura cellulare, sotto una forma più anarchica, più libera. In un certo senso il virus è la forza che permette a ogni corpo di sviluppare la sua propria forma, come qualcosa di disincarnato, libero, galleggiante: la pura essenza della metamorfosi.

La malattia dell’eternità

Ecco cos’è il futuro, una forza di sviluppo e di riproduzione della vita che non ci appartiene, che non è una proprietà esclusiva di un individuo e nemmeno comune o condivisa, ma una forza che galleggia sulla superficie di tutti gli altri corpi.

Proprio in quanto libera, questa forza circola da un corpo all’altro, è a disposizione di tutti, soggetta ad appropriazione da parte di ognuno di essi. Ma così come appropriarsi di un virus significa contaminarsi, trasformarsi, metamorfizzarsi, appropriarsi del futuro significa esporsi a un cambiamento irreparabile.

L’avvenire è la pura forza della metamorfosi, capace di esistere non solo come tendenza di un corpo individuale, ma come corpo autonomo, come il polline libero di volare in aria: una risorsa di cui ci si appropria all’infinito. Il futuro è il fatto che la vita e la sua forza sono ovunque e non possono appartenere a nessuno di noi, né in quanto individui, né in quanto nazione, né in quanto specie. Il futuro è una malattia che costringe gli individui e le popolazioni a trasformarsi; una malattia che ci impedisce di pensare la nostra identità come qualcosa di stabile, di definitivo e di reale.

L’avvenire, in fondo, è la malattia dell’eternità. Un tumore di per sé, ma più benigno. L’unico che ci rende felici. Non è una malattia da cui dobbiamo proteggerci. Non

abbiamo bisogno di vaccinarci contro il virus del tempo. Sarebbe inutile.

La nostra carne non smetterà mai di cambiare. Dobbiamo ammalarci, ammalarci gravemente. E non aver paura di morire. Noi siamo il futuro. Viviamo in fretta. Moriamo spesso.


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