Tor Bella Monaca è un budello di cemento ai margini di Roma. Qui lo stato fatica a insinuarsi o meglio non ci prova con convinzione. Lo testimoniano molti cittadini e lo certificano i dati. Il quartiere è una delle appendici orientali di una metropoli sfilacciata. Un territorio vuoto, ma incredibilmente ricco di persone. Oggi agonizzante per il Covid-19. Nelle periferie il termine emergenza è una formula retorica vuota e la dicotomia decoro-degrado è un'etichetta che omologa e standardizza il 70 per cento del territorio romano.
Tra le strade di Tor Bella Monaca, il disagio è palpabile, è sistemico. Nei suoi caseggiati grigi, oltre alla pandemia, a mordere è anche la fame. «Quando sono entrata, in questo appartamento non c’era niente, neanche la serratura e la caldaia per l’acqua calda, solo buchi alle porte e alle pareti, ho fatto un sacco di sacrifici per sistemare le cose, soprattutto per mio figlio che deve ricominciare a vivere».

M. è disoccupata e segnata dalla stanchezza. Vive in un alloggio popolare del comune di Roma che le è stato assegnato nel 2018, dopo anni di peregrinazioni: quasi dieci trascorsi in un residence in un'altro sobborgo della capitale, la Romanina.

Il figlio di 23 anni è disabile, ha un disturbo psichico i cui sintomi sono ampiamente peggiorati dopo il trasloco forzato e lo sradicamento da servizi sociali e attività ricreative, quasi inesistenti da queste parti della città. Il marito soffre di una malattia degenerativa che lo inchioda a letto. Dorme nel salone perché non c’è spazio sufficiente per accogliere la sua sofferenza. E questo, almeno sulla carta, è illegale.

La famiglia avrebbe diritto ad un alloggio più grande e dignitoso. L'appartamento è di 45 metri quadri. Per molto tempo è stato occupato da una coppia di spacciatori che per suggellare il proprio amore aveva imbrattato le pareti con delle scritte, ancora visibili nonostante le tinteggiatura. La casa è composta da una sala da pranzo invasa dai farmaci e dalle attrezzatura mediche, un bagno troppo piccolo per le difficoltà quotidiane, una cucina e una camera dove il figlio si rintana.

Ogni notte M. tira fuori dall’armadio il materasso e si sdraia sul pavimento ai piedi del coniuge che trascorre le giornate recluso nella cella concessagli dallo Stato. L’ascensore del palazzo si guasta spesso e la carrozzina non entra nella cabina. «Non si può vivere in questo modo: quando andavo al comune per chiedere spiegazioni, mi dicevano di venire un altro giorno, ci hanno sbattuto qui e siamo completamente isolati, il periodo del lockdown è stato duro. Ho dovuto accettare questa casa perché altrimenti saremmo rimasti per strada. E se non fosse stato per la miriade di segnalazioni e solleciti, le istituzioni ci avrebbero dimenticati. Ora vogliamo scappare da questo posto» dice M.

A Tor Bella Monaca, il patrimonio residenziale pubblico conta 5.500 alloggi. Circa 4mila di proprietà del Comune di Roma e 1.500 dell’Agenzia Territoriale (Ater) della Regione Lazio. Il quartiere di case popolari più grande d’Italia. Uno studio sulle stime elaborate dall’Ater nel 2018, pubblicato sul blog Osservatorio Casa Roma, dice che il 41 per cento delle famiglie è in povertà assoluta. Tra queste, il 22 per cento ha un reddito pari allo zero.

«La mancanza di politiche di welfare urbano ha trasformato Tor Bella Monaca in un vero e proprio ghetto in cui rinchiudere la marginalità sociale. Qui le famiglie povere sono lasciate sole. La pandemia ha aggravato ulteriormente la situazione: il contributo per pagare l’affitto stenta ad arrivare e uno tsunami di sfratti è all’orizzonte» dichiara Massimo Pasquini, Segretario nazionale dell’Unione Inquilini. «Le case popolari di Tor Bella Monaca sono il simbolo del fallimento del sistema politico» conclude il sindacalista.

Povertà e solitudine poggiano sulle fondamenta marce dell’incuria e del disinteresse. Letteralmente: basta infatti scendere al piano terra delle torri, grattacieli di periferia di oltre dieci piani di altezza, e poi giù per interrati e garage, per rendersi conto dello stato fatiscente delle tubature e degli impianti elettrici. Dentro uno dei palazzoni che si affaccia sui giardini di via Castano, due ascensori su tre non funzionano da mesi.

Di solito sono gli spacciatori a manometterne il funzionamento, per utilizzare la struttura come deposito di droga o di armi. «Io non so chi sia a farlo, so solo che non viene nessuno a ripararli e ci dobbiamo arrangiare da soli» dice Massimo Musumeci, abitante di una delle torri e fondatore del comitato Torbella resiste.

Nello stesso condominio il quadro elettrico «ha preso fuoco» nel 2018, i cavi sono ancora tutti scoperti e la puzza di bruciato sale fino al cervello. Nel sotterraneo ci sono tre container. L’acqua straripa e invade gran parte delle stanze adiacenti. L’odore di marcio trapassa la mascherina. «Ce n’era un quarto, rotto, sono venuti a prenderlo quelli del Comune, prima del lockdown, non sono mai più tornati. Agli altri tre mancano i galleggianti da anni, abbiamo fatto centinaia di segnalazioni ma non viene nessuno. Pensate se ci fosse un terremoto: queste sono le fondamenta delle torri di Tor Bella Monaca» dice Musumeci.

Se la pandemia ha imposto restrizioni di circolazione e privazioni materiali di vario tipo, c’è una cosa che non è mai venuta a mancare per le strade di Tor Bella Monaca: la droga. Nel piazzale di parco dell'Archeologia, un isolotto di terra battuta sormontato da una collina, una decina di macchine sono in sosta. C’è anche un camper bianco e rosso. Al suo interno, due volontari della Fondazione Villa Maraini che offrono materiale sterile a chi senza eroina non riesce a stare.

Il via vai di gente è infinito: padri di famiglia in utilitarie con figli sul sedile posteriore, e coppie con auto di lusso. E adolescenti. La droga non fa distinzione di classe. «L’utenza non è diminuita durante il lockdown, anzi è stata anche più critica. A marzo e aprile abbiamo avuto sette overdose» racconta Giancarlo Rodoquino, responsabile dell’Unità di strada: «Si può fermare tutto nel mondo, ma la droga no. Il timore che la roba finisse è durato poco». Chi non fa una sosta veloce in macchina si rifugia nel parchetto antistante, una distesa di erbacce e plastica.

«Abbiamo bonificato Tor Bella Monaca, prima era un tappeto di siringhe» dice Giancarlo. Sulla collinetta, sopra queste erbacce, c’è il famoso “buco”, una grotta stretta e angusta. Dentro ci sono due uomini, sulla quarantina. Fumano da una bottiglia al riparo dal maltempo e dagli sguardi dei passanti.

I tossicodipendenti senza fissa dimora si sono rifugiati nei garage e nei sottoscala delle fatiscenti case popolari. Alcuni si sono sistemati in una galleria abbandonata, che fungeva da inversione di marcia, a pochi metri dall’ospedale di Tor Vergata. Prima della pandemia erano una decina, adesso sono in tre, con due cani. Vivono tra cumuli di rifiuti, in tende arrangiate, cartoni accatastati e vecchie lenzuola. In fondo al tunnel ci sono i resti di un albero di Natale, decorato con siringhe e di carta stagnola. L’odore delle feci dei topi è martellante.

La dipendenza da eroina non conosce Dpcm. «Scendevo quattro volte al giorno a comprare la droga» racconta V., tre comunità di recupero alle spalle e la smania dell’ago lenita con il ricorso alla cocaina. «Nell’autocertificazione scrivevo che dovevo andare a comprare le sigarette, mai avuto problemi». V. racconta che in passato ha spacciato anche lui: «È una via troppo facile per chi vive da queste parti». Lo hanno capito pure i ragazzini che con una giornata di “lavoro” come vedette riescono a guadagnare oltre 60 euro. Qui il tasso di abbandono scolastico si attesta al 19 per cento, oltre il doppio del 9 per cento medio registrato nell’intera città. E il richiamo della strada, soprattutto in tempi di didattica a distanza, è pericolosamente forte anche tra i più giovani.

Il livello di dispersione che si registra nel quartiere segue la sua caratteristica forma urbanistica a T. Come una cesoia, trancia la parte più povera, quella di via dell’Archeologia, da quella più istituzionale - con il municipio e la stazione dei Carabinieri - vicino la chiesa di Santa Rita.

I primi segnali di una possibile fuga dal mondo della formazione sono percepibili fin da quando i bambini frequentano la scuola primaria. «All’istituto Bassi, in via dell’Archeologia, la questione è di fondamentale importanza» spiega Noemi Dicorato, attivista dell’associazione Libera. Ha scritto una tesi sulla dispersione scolastica nel quartiere. «Per la sua collocazione, il plesso ha attraversato in passato tante difficoltà in termini di abbandono scolastico e di calo delle iscrizioni. Ciò ha impedito alla scuola di divenire luogo di contaminazione e scambio tra situazioni familiari differenti».

Tuttavia negli ultimi anni si è registrata un’inversione di tendenza dovuta anche al grande impegno e al lavoro portato avanti dai docenti e dalla dirigente scolastica. La pandemia ha messo a dura prova i progressi strappati a Tor Bella Monaca. «La didattica a distanza ha finito per creare ulteriori divari sociali, penalizzando chi era già in difficoltà» denuncia Davide, uno dei tanti volontari di Libera, che si adopera nel doposcuola per gli studenti della zona. «Abbiamo ragazzi che a 13, 14 anni non sanno scrivere»

Per fronteggiare il fenomeno, nel 2018 nasce la Scuola popolare di Tor Bella Monaca. «Un luogo mutualistico di studio», come lo definiscono i 70 volontari coinvolti nelle attività, nello spazio sociale El “Che”ntro. Il nocciolo duro è costituito da studenti e professori del liceo Amaldi.

Sono centinaia, invece, i ragazzi che hanno usufruito gratuitamente di un aiuto. Danilo Corradi è uno degli animatori del progetto. Insegna Storia e Filosofia: «La pandemia non ci ha fermato, il nostro scopo è mettere in relazione tutte quelle persone su cui grava il peso della crisi economica e rafforzare i legami di solidarietà» dice il professore.

Tra le iniziative messe in campo dalla Scuola popolare spiccano le ripetizioni, gli aperitivi in lingua, le lezioni di italiano per stranieri, uno sportello psicologico e uno sportello legale sul diritto allo studio e sulle condizioni di lavoro degli insegnanti. Così l’assenza dello Stato è colmata dalla volontà di riscatto dei cittadini. E dalla loro organizzazione. Una periferia eclissata e martoriata: per evadere da questo limbo, esiste soltanto una fermata della metro. In trenta minuti trascina migliaia di persone dentro il centro di Roma. Un’altra realtà, il diamante di una capitale farlocca.

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