Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


La testimonianza di Roberto Ciancimino offre uno spaccato eloquente del mix di rabbia, sincero sconcerto, prostrazione che contrassegnarono lo stato d’animo del padre Vito nei giorni e nelle settimane seguenti al suo inopinato arresto.

Ce l’aveva, inizialmente, con i carabinieri, rammenta Roberto Ciancimino, in quanto sospettava che fossero stati artefici di un vero e proprio tranello ai suoi danni. Prima avevano chiesto la sia disponibilità a collaborare con loro per trovare una via d’uscita alla situazione che destava tanto allarme e preoccupazione. Lui l’aveva data; ed ecco che proprio quando si stava muovendo per concretizzare la sua disponibilità, era stato arrestato con il preteso del pericolo di fuga, motivato dal fatto che aveva presentato richiesta di rilascio del passaporto [...]. Una richiesta che però era stata concertata con gli stessi carabinieri; o almeno essi non avevano trovato nulla da obbiettare, quando aveva detto loro che il passaporto gli serviva per gestire i contatti necessari.

Sul punto il capitano De Donno ha dato una versione opposta al processo Mori/Obinu, sostenendo che, al contrario, avevano tentato di dissuadere Ciancimino e comunque non era il caso di cercare scorciatoie per ottenere il rilascio del passaporto, poiché sarebbe trapelata all’esterno la notizia della collaborazione di Ciancimino.

Ma De Donno è clamoRosamente smentito non tanto dalla Ferraro, la quale ha sempre declinato al plurale (i carabinieri) i suoi interlocutori sulla vicenda del rilascio del passaporto, ma non è sicura che vi fosse anche De Donno all’incontro che ebbe con il Col. Mori sull’argomento. Ma è smentito dallo stesso Mori, giacché è conclamato il fatto che questi si adoperò presso la Ferraro per perorare la causa del rilascio del passaporto. Ed è uno di più vistosi punti di contrasto nella narrazione dei due ufficiali del Ros sul tenore dei contatti e dei colloqui con Ciancimino.

E va aggiunto che, non solo nei suoi scritti e appunti vari in cui si duole della pretestuosità delle ragioni addotte per motivare il suo arresto, ma già nell’interrogatorio del 17 marzo Vito Ciancimino aveva tenuto a precisare di avere presentato la richiesta di rilascio del passaporto d’intesa con i carabinieri: senza ricevere alcuna smentita, neppure con successiva relazione di servizio, da parte dei due ufficiali, e in particolare da parte di De Donno, che verbalizzò quell’interrogatorio.

Roberto Ciancimino rammenta altresì il suo personale disagio nel girare all’avvocato Campo, storico difensore di suo padre, la richiesta di assisterlo nella presentazione — che lo stesso Roberto riteneva imprudente e controproducente, ma non lo disse al padre perché si sentirono solo telefonicamente - dell’istanza per il rilascio del passaporto. Suo padre successivamente, nel corso dei colloqui in carcere, gli spiegò che s’era determinato a compiere quel passo — Roberto apprese solo dopo l’arresto che l’aveva effettivamente presentata — nonostante il parere contrario dell’avvocato Campo (motivo per il quale si era rivolto all’avvocato Ghiron) proprio perché i carabinieri gli avevano detto di non avere nulla in contrario [...].

In un successivo sforzo di razionalizzare più a freddo la sua vicenda, ha detto ancora Roberto Ciancimino, il padre, premessa la sua convinzione che dietro le stragi vi fossero delle responsabilità politiche a vari livelli, gli disse che forse i carabinieri erano stati complici involontari del tranello di cui era stato vittima. In pratica, essi dovevano avere riferito dei loro colloqui a qualche politico dal carbone bagnato e questo si era mosso per farlo arrestare. E aggiunge: questo era quello che diceva mio padre [...]. Sempre secondo la teoria di suo padre, ai politici interessava soltanto che si arrestassero Riina e Provenzano e chiudere al più presto la situazione.

Se io cominciavo a fare domande su che aria tira e cose, non gli conveniva a nessuno. In pratica, a partire dal momento in cui si era proposto di infiltrarsi nel sistema degli appalti, per conto dei carabinieri, si era deciso di eliminarlo dalla scena. Ma non era stata un’idea degli stessi carabinieri (quella di fermarlo), anzi loro credevano nell’iniziativa da lui proposta, ma ne avevano informato qualcuno che si era attivato per stroncarla (“Era stata una iniziativa..., però credendo in questo rapporto avevano informato qualcun altro che si era attivato per bloccare il tutto”).

Un complotto contro Ciancimino?

Insomma, secondo il verbo cianciminiano, il nuovo arresto dell’ex sindaco di Palermo sarebbe stato frutto di un complotto ordito in ambienti politici per impedirgli di portare a termine la missione per cui si era proposto ai carabinieri. Questi ultimi ne sarebbero stati complici involontari, poiché per parte loro credevano nella validità dell’iniziativa che era stata proposta da Ciancimino. Ma avrebbero commesso l’imprudenza di informarne qualche politico dal carbone bagnato.

Ne discenderebbe allora che la collaborazione instaurata con i carabinieri si prefiggeva obbiettivi che andavano al di là di quello pur importante della cattura di boss latitanti; ovvero, persino nella configurazione assunta nella sua fase finale, e cioè sino all’arresto, sarebbe stata qualcosa di più di un’operazione di polizia, tanto da indurre i carabinieri a informarne qualche esponente politico che poi, a loro insaputa, si sarebbe attivato per fare fallire l’operazione.

Ciò posto, siamo in grado, a distanza di tanti anni e di tanti processi che peraltro proprio su questa vicenda hanno glissato, di comprendere come andarono le cose; e come l’arresto di Ciancimino fu il prodotto di una concatenazione in parte fortuita di eventi, e non di un complotto del tipo di quello evocato dallo stesso Ciancimino tra le righe delle doglianze reiterate nei suoi scritti e, più esplicitamente, nei colloqui con i familiari. Anche se ad innescare quella catena di eventi in effetti una dinamica molto simile a quella descritta da Roberto Ciancimino nel riportare le conclusioni cui era pervenuto suo padre.

Ad avviso di questa Corte, infatti, può darsi per provato che il minstro Martelli, informato nell’ultima decade di ottobre del 1992 dal Direttore degli Affari Generali (Liliana Ferraro) che i carabinieri del Ros – ancora impegnati nel dare corso ad un’operazione incentrata sulla presunta collaborazione di Vito Ciancimino che già aveva fatto storcere il naso al minstro della Giustizia quando ne era stato informato per la prima volta alla fine di giugno dello stesso anno – avevano in qualche modo sondato la disponibilità del minstro a non frapporre ostacoli al rilascio del passaporto che il Ciancimino aveva intenzione di chiedere, fece esattamente ciò che i carabinieri non avrebbero voluto: si mise di traverso a quell’iniziativa, deciso a stroncarla, perché la valutò come inappropriata, nella parte che concerneva l’eccessiva intraprendenza del Ros nel promuovere iniziative che avrebbero dovuto essere svolte dalla Dia o in stretto coordinamento con la Dia; e inopportuna o financo pericolosa nel merito perché si dava ad un personaggio ambiguo e pericoloso come Vito Ciancimino l’opportunità di sottrarsi alla giustizia.

Martelli quindi informò il procuratore Generale Siclari. Abbiamo anche una data certa: il 21 ottobre, giorno dell’incontro di Mori con la Ferraro nel corso del quale si parlò del passaporto di Ciancimino. La Ferraro ne informò in tempi brevi — non può dire se lo stesso giorno o pochi giorni dopo — il minstro, che senza indugio acchiappò il telefono, per usare le sue parole e investì del problema il procuratore Siclari, pregandolo di adottare i provvedimenti più opportuni.

Certo è che sei giorni dopo l’incontro annotato sull’agenda di Mori viene presentata, dalla procura Generale di Palermo una richiesta di ripristino della custoDia cautelare nei riguardi di Vito Ciancimino, in relazione all’imputazione di associazione mafiosa per la quale aveva già riportato condanna in primo grado motivata dal pericolo di fuga.

È una richiesta che poteva destare perplessità perché l’imputato era stato scarcerato per decorrenza termini dieci anni prima (novembre ‘85). E per tutti questi anni era stato sottoposto a varie misure restrittive senza che la sua condotta desse mai adito ad alcun rilievo. [...]

Non si può dire però che la richiesta di ripristino della custodia cautelare si basasse su una motivazione pretestuosa o “apparente”, che ne dissimulasse la vera causale. A sostegno si deducevano oltre all’imminente conclusione del giudizio d’appello (fissato per il 18 gennaio 1993), taluni eventi particolari verificatisi in questi ultimi mesi. In particolare, si faceva riferimento alla collaborazione con la giustizia intrapresa da ultimo da Gaspare Mutolo, accreditato di notevole spessore criminale e già uomo di fiducia del capo mandamento e componente della Commissione Rosario Riccobono, il quale aveva riferito importanti notizie non solo su episodi omicidiari come l’omicidio Mattarella e l’omicidio Lima, ma anche sui legami di esponenti politici con ambienti della criminalità mafiosa. E tra questi ultimi aveva fatto il nome di Ciancimino, evidenziandone i collegamenti con Riina, i contrasti che aveva avuto con l’on. Lima, i collegamenti con vari costruttori in odor di mafia, alcuni particolari sull’omicidio Mattarella che in qualche modo riguardavano Ciancimino ed infine la disponibilità di un patrimonio stimato in svariati miliardi.

[...] E peraltro già nella seduta del 15 ottobre, come ha ricordato l’on. Violante, anche la Commissione Antimafia aveva attenzionato il caso Ciancimino, in relazione al ritardo abnorme nella definizione del procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale che si trascinava da quattro anni in grado di appello.

Di contro, appena due giorni dopo avere avanzato la richiesta di arresto — rectius, ripristino della custodia cautelare in carcere — lo stesso ufficio requirente avanzò una nuova richiesta, decisamente insolita: quella di soprassedere sulla richiesta di arresto, in quanto s’era avuta notizia che Vito Ciancimino dovesse essere sentito dalla Commissione Antimafia (o meglio, come recita testualmente la Nota: “si è appreso che il Ciancimino ha chiesto di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia per fornire alla stessa notizie rilevanti di cui sarebbe in possesso”); e quindi non era opportuno intralciare i lavori della Commissione parlamentare e interferire con i suoi programmi, come sarebbe inevitabilmente accaduto se si fosse proceduto all’arresto del Ciancimino.

Ora, se si considera che nella nota indirizzata il 29 ottobre 1992 al Presidente della Terza sezione penale della Corte d’Appello di Palermo ci si limita a prendere atto che v’era solo una richiesta di Ciancimino di essere ascoltato, ma neppure si dava per certo che ciò sarebbe avvenuto e tanto meno di facevano previsioni sulla data di un’eventuale audizione, appare chiaro come la nuova determinazione equivaleva ad una sospensione sine die della richiesta precedente e quindi un rinvio, per così dire a babbo morto di ogni decisione sulla richiesta teoricamente ancora pendente di arresto. E ciò fa presumere che la procura generale non fosse tanto convinta che vi fosse un pericolo concreto e attuale di fuga, o che avesse mutato orientamento sul punto (ma dopo appena due giorni e sulla base di notizie di stampa, come pure si precisa nella Nota citata).

Contromosse e richieste

Insomma, sembrerebbe essere stata una classica contromossa, volta a parare gli effetti della prima mossa (e cioè sollecitare l’arresto di Ciancimino, su cui adesso si chiedeva di soprassedere) se non fosse per il fatto che tale contromossa proveniva dallo stesso ufficio requirente autore della (presunta) prima mossa. Circa quaranta giorni dopo, il meccanismo che avrebbe riaperto le porte del carcere a Vito Ciancimino, prima ancora della conclusione del giudizio d’appello, si rimette in moto.

La procura generale di Palermo, con una nuova nota datata 7 dicembre 1992, valuta esaurito il tempo dell’attesa e richiamando la precedente richiesta del 27 ottobre e la successiva nota del 29 ottobre, sollecita la competente A.g. a provvedere in merito al ripristino della custoDia cautelare in carcere per Vito Ciancimino. Non sembra però che fosse accaduto nulla che potesse avere alterato il quadro preesistente; e infatti, nella Nota nr. prot. 145/92 bis. del 7 dicembre ‘92 si evidenzia solo che la Commissione parlamentare Antimafia non aveva ancora proceduto all’audizione del Ciancimino, né risultava che questi avesse più sollecitato tale audizione, sicché, a giudizio dell’ufficio richiedente, erano venute meno le ragioni che avevano indotto a formulare la Nota del 29 ottobre.

La situazione precipita a partire dall’11 dicembre. […] In data 17 dicembre, la III Sezione penale del tribunale di Palermo emetteva ordinanza applicativa del divieto di espatrio nei riguardi del Ciancimino; e il giorno dopo, 18 dicembre era la volta della III Sezione penale della Corte d’Appello di Palermo emettere a sua volta ordinanza con cui disponeva il ripristino della custodia cautelare.[...]. E il fatto che il prevenuto non fosse ricorso a sotterfugi, ma avesse adito le vie legali per il rilascio di titolo valido per l’espatrio, che poteva apparire incompatibile con la volontà di fuggire (che sarebbe in tal modo come preannunciata, si legge nel provvedimento), viene piuttosto valutato come indizio di astuzia, e del tentativo in un uomo abile, intelligente e non ignaro delle leggi, di sottrarsi definitivamente alla giurisdizione italiana, ricorrendo ad uno strumento che gli avrebbe evitato i rischi e il disagio di un espatrio clandestino.

Tensioni e pressioni sul “caso Ciancimino”

La conclusione che questa Corte ritiene di poter trarre dalla congerie di confuse e contraddittorie risultanze sopra richiamate è che sul caso Ciancimino si scaricarono tensioni e si esercitarono spinte e contro spinte e pressioni di segno opposto. Ma alla fine non si può certo dire che l’operazione imbastita dai carabinieri del Ros, cui l’arresto di Ciancimino non giovava, avesse ricevuto l’avallo e l’appoggio di ambienti politici, governativi o parlamentari, o giudiziari.

Al contrario, al veto di Violante rispetto alla richiesta di un colloquio riservato e alla successiva “melma” sull’audizione di Ciancimino, che di fatto non venne mai calendarizzata, si aggiunse la furibonda reazione di Martelli che veRosimilmente innescò il meccanismo che anche per spinta inerziale portò alla fine all’arresto dell’ex sindaco di Palermo e all’inizio di una detenzione in carcere che si sarebbe prolungata senza soluzione di continuità per circa sette anni.

Ipotesi ancora da verificare

Detto questo, deve convenirsi che non si può pervenire a valide conclusioni probatorie ragionando sulla base di sospetti o di congetture per quanto plausibili. Il sospetto di una residua reticenza degli esponenti politico istituzionali con cui Mori e De Donno ebbero varie interlocuzioni in ordine ai contatti intrapresi con Ciancimino, sotto il profilo che essi possano aver detto meno di ciò che lii loro detto o lasciato intendere nel corso di quelle interlocuzioni circa le reali finalità dell’iniziativa, resta ciò che è: un mero sospetto. Come resta un’ipotesi, ancora da verificare, che le ambiguità irrisolte di quell’iniziativa, o del modo in cui venne rappresentata dagli ufficiali del Ros a vari interlocutori politici e istituzionali, ne dissimulassero le reali finalità.

Non è dalle testimonianze di detti interlocutori, insomma, che può venire una parola definitiva proprio su questo punto, che è decisivo ai fini del giudizio di responsabilità nei riguardi, in primo luogo, degli ex ufficiali del Ros qui imputati di concorso nel reato di minaccia a corpo politico dello stato; ma di riflesso anche nei riguardi dei coimputati che ne rispondono quali autori del reato.

Ma che sia necessario dare, sul punto, una risposta definitiva era certamente, ed è, compito di questo processo, nelle sue varie fasi e gradi di giudizio. Era cioè — ed è — compito di questo processo, e lo è tanto più in questo grado di appello per rispondere alle postulazioni difensive degli odierni appellanti, raccogliere l’invito, quasi un passaggio di consegne, dei giudici dei primo processo celebrato sulle stragi in continente.

Si legge infatti a pag. 954 della cit. sentenza della Corte d’Assise di Firenze, 6.06.1998:

Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del Ros a ricercare un contatto con Vito Ciancimino. Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa”. ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all'attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del Ros ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa. Quello che conta, invece, è come apparve. all'esterno e oggettivamente, l’iniziativa del Ros, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro...”.

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