Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso: e l’unica convenienza a non andare a fondo delle attività investigative dirette alla cattura del boss corleonese si legava alla condizione che questi riuscisse a mantenere il controllo delle pulsioni stragiste e che sotto il suo comando tutta Cosa nostra restasse fedele e ligia alla strategia della sommersione.

È proprio questo lo stato d’animo di Provenzano descritto da Giuffré quando si sparse la notizia che Ilardo era stato un confidente dei carabinieri. Un mix di preoccupazione e di ostentazioni di sicurezza che lo indussero a moltiplicare sì le precauzioni e ad essere sempre più esigente con i sodali che lo assistevano e protegge vano nella sua latitanza; ma, al contempo, a non cambiare la rete dei favoreggiatori e soprattutto il territorio in cui proseguire la sua latitanza (che Riina a Mezzojuso fino a quando, il 30 gennaio 2001, la Polizia di stato non fece irruzione in uno dei casolari messi a lui a disposizione da “Cola” La Barbera nei quali era solito tenere incontri riservati con altri uomini d’onore: e in quella circostanza furono arrestati lo stesso La Barbera Nicolò e Benedetto Spera).

[…] Ma per quel che importa ai fini dei presente giudizio non si profila sullo sfondo di questo ipotetico cordone protettivo steso intorno alla latitanza di Provenzano alcun interesse e volontà di corroborare la minaccia di una ripresa delle ostilità (di Cosa nostra) contro lo stato, perché la minaccia non era rappresentata tanto da Provenzano, ma, al contrario, dai suoi antagonisti.

I quali erano ancora forti o potevano riprendere forza, considerato il prestigio e il consenso di cui godeva quel Salvatore Riina, irriducibile propugnatore della strategia dello scontro frontale con le Istituzioni, che continuava ad essere, formalmente, il capo di Cosa nostra.

Pertanto, l’obbiettivo di fondo, che restava quello di prevenire nuovi delitti eclatanti o una ripresa della violenza stragista, non sarebbe stato, in ipotesi, condizionato ad un accordo consistente in reciproche rinunce, tra lo stato e la mafia (intendendo per stato il mondo della politica, o suoi qualificati esponenti, e il Governo), ma, semmai, ad una obbiettiva convergenza di interessi, tra i nuovi vertici dell’organizzazione mafiosa (giacché il presupposto era sempre quello che si riuscisse a soggiogare l’ala dura) e i responsabili degli apparati investigativi, o di uno dei principali apparati dello stato specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata.

Insomma, si voleva “proteggere” Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft (come ipotizza anche il giudice di prime cure), e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portare alla cattura di Provenzano, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, cioè il Provenzano, avrebbe riattivato lo stragismo o dato la stura ad una ripresa della violenza mafiosa; bensì perché la caduta di Provenzano, che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa nostra e l’avvento ai vertici dell’organizzazione degli esponenti rimasti più fedeli a Salvatore Riina.

Un simile disegno strategico, riportato ai fatti del ‘92, si traduce non già in una promessa di protezione della latitanza di Provenzano, ma in una sollecitazione rivolta alla componente moderata (che si presumeva esistere in Cosa nostra e poter contare su autorevoli esponenti, e poco importa che facesse capo a Provenzano, come è verosimile che Mori già ipotizzasse, o ad altri) a cooperare al ripristino di un clima di non belligeranza o di conflittualità sostenibile con le Istituzioni: un clima che lasciava intravedere, in prospettiva, la possibilità di un allentamento dell’azione repressiva dello stato e di modifiche anche del quadro normativo; e, nell’immediato, un occhio di riguardo nello svolgimento delle indagini che investissero gli esponenti mafiosi disponibili a cooperare a quel progetto, o i loro affari. Fermo restando che passaggio obbligato della realizzazione di un simile progetto era la decapitazione dell’ala dura, e quindi la cattura di Riina.

Ancora “persistenti pulsioni stragiste”

La linea della contrapposizione violenta allo stato era stata imposta dal Riina già alla fine del ‘91; ed egli, in effetti, come si evince da alcuni sfoghi cui si lascia andare nelle conversazioni intercettate al carcere di Opera, non avrebbe mai voluto che Cosa nostra se ne discostasse (rimproverando proprio a Binnu di essersi fatto fregare, per avere ceduto alle sirene di quanti, andando a piangere sulla sua spalla, lo sollecitavano a “collaborare”: v. supra).

Ma già nell’autunno del ‘95 era chiaro che Cosa nostra aveva - da tempo - abbandonato questa linea: perché tentata dalla ricerca di una soluzione “politica” ai suoi problemi (investendo su una nuova formazione politica che, oltre a poter vantare ottime chance di affermarsi alle elezioni del marzo ‘94, benché fossero le prime elezioni politiche cui si presentava, prometteva di attuare un programma consentaneo agli interessi mafiosi, grazie anche ad intese raggiunte con qualificati intermediari); o perché era prevalsa l’opzione più moderata, dopo che si era constatato che la stagione delle stragi aveva procurato solo l’inasprimento dell’azione repressiva dello stato con conseguenze disastrose per gli interessi dei mafiosi.

Ma certo è che le notizie che il Ros poteva assemblare portavano alla conclusione, o confortavano la certezza già raggiunta, che Provenzano fosse convinto assertore di una linea più moderata, almeno quanto i Graviano e Brusca e Bagarella erano stati convinti fautori della linea stragista. Oggi sappiamo che era così, perché ce lo hanno raccontato collaboratori di giustizia di innegabile spessore come Giuffré, Sinacori, La Barbera, Cucuzza ed anche lo stesso Giovanni Brusca (e senza dimenticare il Cancemi dell’interrogatorio del 15 marzo 1994).

Ma le fonti che all’epoca, e già a partire dal ‘92, il Ros poteva compulsare erano con certezza o con tutta probabilità, soggetti molto vicini al Provenzano, e quindi in grado di fornire elementi di conoscenza o di valutazione su quali fossero gli orientamenti e gli auspici del boss corleonese.

E la certificazione che, sul finire degli anni ‘90, questa fosse una convinzione ormai diffusa e condivisa dagli apparati investigativi — e non più soltanto dal Ros che però con tutta probabilità l’aveva maturata prima degli altri — viene da un documento eccezionale, acquisito nel corso della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale espletata in questa sede. […]. Il dato che più rileva, e che affiora tra le righe della scarna informativa a firma del Col. Pellegrini, è costituito dall’implicito ma chiaro e inequivocabile riconoscimento a Bernardo Provenzano del ruolo di perno di uno schieramento mafioso ancora egemone e garante, per così dire, di una sorta di pax mafiosa e di un equilibrio reciprocamente rispettoso tra potere mafioso e autorità dello stato. Al punto che si profila come un rischio, che è interesse e compito prioritario degli apparati investigativo dello stato contrastare e sventare, le trame delle fazioni mafiose ostili alla leadership dello stesso Provenzano. Come se il maggiore pericolo non fosse costituito dall’egemonia mafiosa sul territorio, ma dall’eventualità che la leadership di Provenzano venisse sovvertita e messa in crisi, e con essa tutto l’ordine costituito che ne era garantito.

In realtà, la preoccupazione che trapela dall’informativa ben può essere letta in un’ottica diversa e meno inquietante. Se fosse stato vero che le frange che brigavano in dissenso dalla leadership di Provenzano progettavano addirittura delitti eclatanti - come l’attentato al presidente del Tribunale che stava celebrando il processo a Marcello Dell'Utri, stando alle rivelazioni (de relato) di Pietro Riggio - allora è naturale che, senza cedimenti sul versante dell’azione di contrasto al potere mafioso, in chiunque incarnato, tuttavia divenisse prioritario, per gli investigatori, scoprire e sventare eventuali trarne stragiste o progetti di attentati. […] Ma il dato saliente che si vuol qui segnalare è un altro.

In sostanza, nel 1994 i vertici del Ros sapevano che Provenzano, pur essendo uno dei capi di Cosa nostra, era fautore di una linea più moderata rispetto a quella sanguinaria e di scontro frontale con le Istituzioni patrocinata da Brusca e Bagarella. E però non si comprende donde venisse questa consapevolezza di una profonda diversità di vedute strategiche se appena pochi mesi prima proprio Mori, nel suggerire a Nicola Rao il testo dei lanci d’agenzia del 10 dicembre 1993, aveva indicato in Bernardo Provenzano (e subito dopo il nome che si faceva era quello di Aglieri, altro esponente di spicco dell’area provenzaniana) il principale ispiratore e regista delle stragi in continente. E considerato che per quanto costa nelle dichiarazioni rese all’A.g. lo stesso Cancemi aveva sempre indicato in Provenzano un convinto assertore della ortodossia corleonese che propugnava la necessità di attenersi alla linea voluta da Riina (Sarà in effetti Antonino Giuffré a rivelare che la fedeltà alla linea esternata “ufficialmente” era una postura di facciata del Provenzano imposta da prudenza nel prendere atto che i rapporti di forza erano ancora a favore dell’ala dura).

Evidentemente si trattava di una conoscenza pregressa e non (ancora) consacrata in fonti ufficiali o processuali.

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