Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


C’è un uomo, di nome Salvatore Zaffarana, il quale riceve lettere così: «Ill.mo signore, sono un minatore che vive e lavora nella città inglese di Wakefield. Due anni or sono, colpita da male inesorabile, la mia gentile signora decedette, lasciandomi vedovo inconsolabile con due bambini in tenera età.

Da allora ho cercato di curarli da padre affettuoso, ma io vedo la sofferenza dei miei figli perché non c’è chi provvede a custodirli, a cucinare e lavare per loro, o curarli quando hanno la febbre. Pur rispettoso della memoria della buonanima ho deciso perciò di convolare a nuove nozze ed è per questo che mi rivolgo a lei, la cui fama arrivò fino in Inghilterra. Cerco una donna ancora giovane, gentile e illibata. Io ho 43 anni, guadagno venti sterline la settimana, godo ottima salute e dispongo di carattere affettuoso… etc. etc.»

Così ci recammo a Caltagirone a conoscere Salvatore Zaffarana, l’uomo il quale fa trovare moglie agli emigranti. Era un bel pomeriggio di autunno, senza un alito di vento, solo qualche nuvola grigia, piccoli palazzi con le macchie di muschio. Caltagirone ci apparve quieta e sonnolenta; a mano a mano che camminavamo verso il centro cominciammo a chiedere di Zaffarana: ad un vigile urbano, ad un tassista, ad uno studente, al proprietario di un bar, ad un vecchio contadino.

Lo conoscevano tutti, lo avevano incontrato dovunque, pareva che fosse stato in tutti i posti, nella piazza, nei bar, al cinema, al circolo, e subito però si fosse dileguato. Ce ne fecero una descrizione tale che, prima di conoscerlo, sapevamo esattamente com’era: «È robusto, un po’ grasso, con la testa completamente calva…» «Ha sessantasette anni, vestito di nero, è rimasto vedovo da un anno…» «Ce l’ha presente un frate di convento, bello, grasso, uno che gli piace mangiare assai…? Ecco, così!» «Una volta faceva il postino e tanta strada macinò che ora zoppica un poco. Getta i piedi di sghimbescio…Non può sbagliare!»

L’indirizzo ce lo dettero nella sede della democrazia cristiana. Uno stanzone dalle pareti nude sulle quali c’erano solo le foto di un comizio, il ritratto di un deputato e un cartellino: Sala di lettura. Nemmeno un libro o un giornale. Tutt’intorno, lungo le pareti, una ininterrotta fila di sedie occupate da uomini il più giovane dei quali aveva almeno ottant’anni. Stavano seduti così in circolo: ogni tanto qualcuno di loro diceva una frase e gli altri si limitavano ad annuire con un cenno del capo. Non sembravano tristi di essere così vecchi, anzi avevano un’aria amabile.

Pareva solo che avessero freddo: indossavano tutti pesanti cappotti, berretti, sciarpe, e stavano l’uno stretto all’altro. Davano la strana impressione di essersi riuniti insieme per aspettare che passasse il tempo, facendosi coraggio a vicenda. Anch’essi conoscevano tutti Salvatore Zaffarana, qualcuno anzi ridacchiò, come se quel nome lo mettesse in allegria.

Il più autorevole, seduto al centro, come un pontefice, disse: «Salvatore Zaffarana abita a cento metri dalla chiesa dove è seppellito Luigi Sturzo. Strade buie: difficile trovarlo a quest’ora!»

Luigi Sturzo è seppellito nella chiesa dell’Annunziata: una grande facciata grigia che sorge in un mare di piccole case povere, tetti, straduzze e vicoli che scendono dalla cima della collina verso la valle. Erano le sette di sera e non passava più nessuno.

Camminando dentro quel vecchio quartiere sconosciuto improvvisamente avvertii il segreto fascino di una piccola città siciliana di provincia che sprofonda adagio in una sera di autunno: piccole luci che trapelano dalle facciate, i cortili deserti, la forma di un carro con le stanghe in aria, una lampada che illumina una scala piena di fiori, lo spiraglio d’un basso attraverso il quale si scorge un vecchio che mangia in una scodella, una donna con lo scialle che sbuca da un angolo e subito si dilegua, l’odore misterioso dei cibi autunnali, i legumi, le castagne, la salsiccia.

D’un tratto, in quelle strade deserte sentii il suono di un’orchestrina: la musica d’una vecchia mazurka siciliana. Forse per la malinconia di quei luoghi semibui, forse per la delicatezza di quella musica, il suono dell’orchestrina creava un’atmosfera quasi irreale. In tutta quella via c’era solo un uscio illuminato e la musica veniva di là: pareva una festa di povera gente.

Era invece un salone di barbiere, formato da una sola piccola stanza, due vecchie poltrone di legno, una decina di sedie, un tavolo e due specchi. Un ometto in camice bianco ed il suo garzone adolescente stavano insaponando i rispettivi clienti, e due uomini al centro della stanza, l’uno alto e calvo, l’altro piccolino, con gli occhiali e un baschetto, suonavano fisarmonica e chitarra. Altri quattro clienti stavano seduti in silenzio e ascoltavano.

Descrivere la sensazione di quello spettacolo è difficile: il vecchio motivo di quella mazurka, i capelli bianchi di quegli uomini ed i loro vecchi vestiti, la luce fievole della stanza, l’incantata tristezza con cui ascoltavano la musica, il profilo aguzzo di quel barbiere che accompagnava il motivo con una vocina di gola e intanto aveva appeso la striscia di cuoio ad un chiodo del muro e continuava ad affilare il rasoio dondolando la testa ad ogni colpo.

Un nuovo personaggio completò perfettamente il quadro: la porta a vetri si aprì lentamente ed apparve un vegliardo quasi sepolto in un cappotto nero, una sciarpa di lana e la coppola. Salì il gradino ed avanzò adagio a piccoli passi, picchiando lievemente a terra con la punta del bastone finché il barbiere lo prese dolcemente per un braccio e lo accompagnò ad una sedia al centro della stanza.

Il cieco sedette e restò immobile, con le mani incrociate sul manico del bastone ad ascoltare la musica. Doveva avere almeno novant’anni, il volto di un bellissimo color cera in mezzo al quale spiccavano i due occhi fermi e azzurri. Vista dalla strada buia quella piccola stanza illuminata, con i suoi personaggi sembrava una evocazione poetica. Quando io entrai, tutti si volsero a guardarmi, i due suonatori di colpo abbassarono il suono degli strumenti al punto che la musica divenne appena percettibile: «Scusate, io cerco il signor Salvatore Zaffarana»

Cominciarono a parlare tutti in una volta: «Abita nella strada accanto, vicino alla chiesa…» «Io l’ho incontrato un’ora fa…» In quell’attimo il cieco sollevò il braccio col bastone e subito ottenne il silenzio. Aveva un atteggiamento da veggente: «Andate in via Botteghelle numero 16, al terzo piano. Verrà ad aprire un signore di nome Ciulla Serafino. II signor Zaffarana è con lui. Ogni sera, dalle sette alle otto, giocano a briscola.»

Riabbassò il bastone ed i due musicanti ricominciarono a suonare, il barbiere riprese delicatamente a radere il suo cliente, con un occhio semichiuso come se prendesse la mira con il rasoio. Gli altri rimasero impassibili ad ascoltare tranne uno di loro, con i baffetti alla Hitler, il quale accompagnava la musica battendo con le mani sul tavolo come su un tamburo.

Notai che su una sedia c’erano un mazzo di carte siciliane, quattro bicchieri e una bottiglia di vino. Sentii una tentazione irresistibile di sedermi con loro e trascorrere così la serata, ascoltare e capire quel minuscolo mondo racchiuso in una stanza di barbiere di provincia: l’odore del bergamotto e delle pipe, quella musica di chitarra e mandolino, quali discorsi facevano quegli uomini vecchi, chi erano i due suonatori, quel vegliardo cieco che sembrava un patriarca…

Andai in via Botteghelle numero 16. Bussai al pianerottolo del terzo piano e tutto accadde esattamente come il cieco aveva previsto. Venne ad aprirmi un signore piccolino, con i capelli bianchi, di nome Ciulla Serafino, estremamente cerimonioso il quale mi fece accomodare in un salotto pieno di ninnoli: «Il signor Zaffarana viene subito».

Dopo pochi minuti il signor Zaffarana comparve. Una cosa impressionante: era tale e quale lo avevano descritto, corpulento, vestito di nero, con una grande testa calva da fratacchione, due piccoli occhi che, in meno di cinque secondi, mi ispezionarono tutto e mi valutarono. Capì subito che non ero venuto per vendere, comprare e nemmeno per cercare moglie. Fece un inchino: «Zaffarana Salvatore per servirla».

Quando seppe cosa volevo da lui fece un risolino e un sospiro: gli emigranti, strana gente! Tutta la vita lontani, poi un giorno decidono di prendere moglie e vogliono una donna del loro paese… chiedono donne che non esistono nemmeno sulla luna! Va bene… parliamo! Se mi consente cominciamo a parlare di me.

Si accomodò ancora più profondamente sulla poltrona. Rifiutò una sigaretta e con un cenno benevolente mi consentì di accenderne una, socchiuse gli occhi per concentrarsi, con le mani intrecciate sulla pancia.

E cominciò: «Zaffarana Salvatore, classe 1903, vedovo con quattro figli di cui una sola ancora nubile. Graziosa, dolce, si chiama Pia: è la mia pupilla! Ho servito dodici anni nelle Poste e telegrafi nella qualità di portalettere, poi due anni al Banco di Sicilia con la mansione di fattorino. Attualmente pensionato con la vocazione degli affari: esattamente mediatore di case, terreni e matrimoni. Scoprii la vocazione trentacinque anni fa: un amico mi disse che voleva prendere moglie, ma era timido, non sapeva scegliere, aveva paura di sbagliare. “Non ti preoccupare” gli dissi “ci penso io!” In un mese gli trovai moglie, bellina, ancora giovane, con un po’ di dote. Mi sentii felice e capii che quello era il mio destino. In trentacinque anni ho combinato millecinquecentocinquanta matrimoni, ho fatto conoscere e sposare uomini e donne che altrimenti non si sarebbero mai incontrati e conosciuti. Per lo meno altri diecimila bambini o giovanotti, che oggi esistono anche in America o in Australia, non esisterebbero se non ci fossi stato io. Nei primi tempi lavoravo solo a Caltagirone, Vizzini, Militello, poi cominciai a trattare matrimoni anche a Catania, Palermo… Oggi posso fare sposare un uomo che abita nel Brasile con una donna domiciliata a Milano…»

Si concesse una pausa soddisfatta. Era chiaramente un uomo che ci provava gusto a narrare, si divertiva. Riprese: «Per esempio, due mesi fa venne un uomo di quarant’anni dal Venezuela, aveva un buon impiego, tutti i soldi che gli servivano, ma si sentiva solo e triste ed allora venne a trovarmi… Io gli ho portato cinque matrimoni, poverino si è smarrito un poco, gli piacevano tutte, quella era più bellina, l’altra non era così seducente ma possedeva due appartamenti, la terza era la più docile e remissiva, la quarta però era la più giovane… l’emigrante aveva un fratello di trent’anni il quale, considerata la situazione, non ha voluto perdere tempo: “Passo la preferenza a mio fratello nella scelta” dice “Ma poi mi voglio sposare pure io…” E gliene racconto un’altra: venne un emigrante dalla Svizzera, un bel giovane, ma era ingenuo, non aveva esperienza, aveva paura di sbagliare, alla fine disse: io voglio quella! Una ragazzina di quindici anni, una bambolina, il padre esitava: e se poi mia figlia si sente infelice lontano dalla famiglia… poverina, la prima volta che esce di casa? Niente da fare: ora abitano a Zurigo ed hanno già un bambino, sono felici… Tutti i matrimoni che combino io sono felici!»

Pronunciò la frase come se pronunciasse una sentenza. E se ne compiacque: «Questa è un’arte difficile! Ci vuole saggezza per capire se due persone possono vivere insieme; studiare i loro caratteri e capire se riusciranno a sopportare l’uno i difetti dell’altro. Ci vuole prudenza e astuzia perché un uomo ed una donna che cercano di sposarsi tentano sempre di imbrogliare, raccontano menzogne, si tingono i capelli, si mettono dentiere nuove e parrucche, si calano una maschera per apparire migliori di quello che sono».

«Infine ci vuole onestà poiché l’uomo deve sapere esattamente la verità sulla donna e viceversa: attento amico questa signorina è buona, dolce e graziosa, e ti porta dieci salme di terreno in dote, ma dieci anni fa subì una disgrazia d’amore, non è più vergine…! E nemmeno saggezza e onestà sono sufficienti, ci vuole anche intuito, non so se mi spiego, capire subito quello che un uomo vuole dalla donna e fin dove se lo merita. Ci sono fannulloni e gaglioffi di bella presenza che tentano di mettere le mani sul denaro, non gliene importa niente di creare l’infelicità di una povera donna… Ci sono invece signorine anziane che nessuno ha mai sfiorato con un dito, magari sono bruttine o zoppette, le quali sono terrorizzate dalla paura di non poter conoscere l’amore, ed io debbo capirlo… Vogliono soprattutto un uomo, né ricco, né intelligente, ma onesto e vigoroso… Se io combinassi il matrimonio con un uomo facoltoso ma gracile, farei due infelici…!»

«E infine ci vuole passione per fare questo lavoro. E l’arte più difficile: si tratta di prendere due vite umane e vedere se possono combaciare per tutto il resto della loro esistenza, scoprire i difetti e le menzogne, calcolare gli stipendi, le rendite, la pensione, la dote, la sincerità dei sentimenti, persino la salute e le malattie. In mezzo alla folla delle persone io scelgo i due esseri umani più adatti e ne formo una famiglia. Mi dice lei cosa ci potrebbe essere di più affascinante… Un pittore che dipinge un quadro…? Un violinista che esegue musica…?»

Mi guardò in silenzio studiando ogni increspatura del volto per controllare se io osassi insinuare perplessità sul conto della sua arte. Io sorridevo gentile, non osavo. Ed egli rassicurato mi precisò un particolare tecnico, un segreto: «Una cosa deve essere assolutamente certa per la riuscita di un matrimonio: la sicurezza economica! Inutile farsi illusioni! I soldi sono tutto! Quasi tutto! Un uomo ed una donna, i più belli, gentili e intelligenti del mondo, se non hanno denaro per vivere, dopo una settimana si odiano, dopo un mese si prendono a legnate.

I tempi sono questi! Una volta una donna voleva sposare il proprietario, il signore benestante che possedeva campagne. Ora invece cercano l’impiegato di banca, il professore che ha la garanzia del ventisette. Da parte loro gli uomini disprezzano la terra, vogliono almeno un appartamento, meglio ancora se si tratta di una maestrina o un’impiegata postale con lo stipendio sicuro!»

Era straordinaria l’agilità mimica con cui Zaffarana, così grosso e pesante, spiegava il suo discorso con i gesti e la mobilità della fisionomia, ridente, triste, allegra secondo le parole. Egli letteralmente rappresentava quello che andava dicendo: «I miei clienti non hanno età e nemmeno ceto sociale. Sono soltanto persone che, ad un certo momento della loro vita, sentono il bisogno di un altro essere umano, ma non sono capaci di trovarlo, hanno bisogno di aiuto. Allora è il mio momento… Non c’è essere umano che il vecchio Zaffarana non possa aiutare! Ho un archivio di almeno diecimila nomi, lettere, fotografie… Le sconvolgenti storie d’amore che conosco io! Io ho fatto sposare anche uomini di ottant’anni… Perché? Un uomo di ottant’anni dovrebbe essere condannato alla infelicità? Ci sono uomini così, abbandonati da tutti, anche dai figli… Io li ho aiutati a trovarsi una compagna con i capelli bianchi… Lei non può immaginare come possano amarsi, con quanta devozione, un uomo ed una donna giunti alla fine della loro vita…»

Ebbe quasi un attimo di commozione e per fugarla si passò rabbiosamente la mano sul cranio pelato. Mi chiese se gradivo un liquore, un caffè; subito il suo amico Ciulla che aveva fin’allora ascoltato a bocca aperta, si alzò di scatto e tornò con un vassoio ed i bicchierini colmi, stette immobile nell’inchino finché ci servimmo. Sembrava felice di quello che stava accadendo in casa sua, orgoglioso di avere un amico così.

Zaffarana bagnò le labbra nel liquore e fece un cenno di brindisi: «Questo bicchierino di liquore sa cosa mi ricorda? Una donna… una bella donna, con una vestaglia di seta trasparente, una magnifica parrucca bionda, le mani più delicate di una bambina… Mi invitò a casa sua, un appartamento di lusso, divani, quadri, specchi, lampadari… mi fece scegliere un liquore e si sdraiò sul divano, guardandomi con un sorriso misterioso: “Senta Zaffarana” cominciò “lo voglio sposarmi mentre sono ancora giovane. Sono bella, anche lei lo deve riconoscere, possiedo tre appartamenti ed ho qualche milione in banca… Però sono prostituta, la cosa mi pare evidente… Lei dice che è possibile trovarmi un marito…? Un giovane gentile, disposto a perdonare…?” Si mise a piangere, mi fece pietà».

«Sto cercando marito anche per lei, secondo me è un’opera di bene… Ma è difficile, difficile… Quando un uomo sente che la donna ha avuto le sue esperienze ed ha subito molti inganni dagli uomini e però intanto ha un bel po’ di quattrini, subito dice: “Per caso si tratta di una puttana…?” Un uomo, vuole le sue soddisfazioni di uomo, vuole una vergine… almeno tenta! L’emigrante poi è il tipo meno adatto a sposare una donna troppo esperiente. L’emigrante è un uomo che è andato a lavorare all’estero per non subire più umiliazioni al suo paese. Quasi sempre è ancora giovane, forte… se accettasse di sposare una prostituta solo per denaro accetterebbe l’umiliazione più grande».

«No, l’emigrante cerca invece una ragazza completamente ingenua, disposta a cominciare con lui la sua esistenza: cerca soprattutto la giovinezza, la fedeltà. Sa dove egli crede di trovare una ragazza povera ma sicuramente pulita? Negli orfanotrofi femminili… Ma anche lì dentro si può subire un inganno, fanciulle che sembrano madonne e poi invece hanno l’istinto delle delinquenti… L’animo della donna è un mistero. Meno male che ora c’è il divorzio, sarà una rivoluzione…»

«Molti emigranti separati dalla moglie mi hanno già scritto dalla Germania, dalla Francia: vorrebbero una donna con la quale cominciare a vivere insieme… no, non un’amante, il concetto non è questo… proprio una donna con la quale cominciare a vivere fino a quando, ottenuto il divorzio, non si potranno sposare. Quante storie umane, quante tragedie che lei nemmeno immagina, lettere che mi arrivano dall’Argentina, dall’Australia, e il vecchio Zaffarana Salvatore cammina, viaggia. prende il treno o l’aeroplano, conosce migliaia di persone, parla, ascolta, consola…» «E quanto guadagna, signor Zaffarana?»

Fece un lunghissimo sorriso silenzioso: «Quanta povera gente ho reso felice senza chiedere un soldo… Certo anche le missioni di bene, anche le opere d’arte hanno un prezzo… Ma è la passione soprattutto, non riuscirei a vivere senza questa passione, questa curiosità. Oramai sono un po’ vecchio, mia moglie è morta, una donna senza paragoni… Tre miei figli si sono già sposati. Mi resta da compiere un capolavoro… Mia figlia Pia, non c’è una creatura più dolce, più delicata e obbediente di lei… Vuole sapere perché si chiama Pia…? Le voglio raccontare solo questo e poi ce ne andiamo…»

Rise felice solo al pensiero: «Dunque, trent’anni fa io ero un povero portalettere di seconda classe e mia moglie era incinta per la quarta volta. C’era stato un amico mio che, in occasione della visita in Italia del reggente Paolo di Iugoslavia, aveva imposto al figlio il nome di Paolo e l’aveva comunicato all’ambasciata iugoslava. Gli arrivò un telegramma di felicitazioni e un assegno di tremila lire, tremila lire di allora, un anno di stipendio di un portalettere. Benissimo: mia figlia nacque lo stesso giorno della elezione di Pio dodicesimo a Papa. Guarda che bella, pensai, io chiamo mia figlia Pia e chissà che meraviglioso regalo mi manderà il Papa. Così feci e la stessa sera scrissi un’invocazione al nuovo Papa… Scriva scriva, senta che capolavoro… Me la ricordo tutta a memoria…!»

Rideva sempre felice, si passò daccapo una mano sul cranio lucido, si concentrò appena un attimo. Il gioco delle sue mani in aria era un spettacolo. Disegnava le parole: «Istanza a Sua Santità, con favore di grazia celeste… Santità, quando le campane di Roma immortale ed eterna suonavano a stormo per annunciare al popolo fedele ed alla religione degli avi l’assunzione al trono della Santità vostra, una nuova anima s’incarnava e si aggiungeva alle altre per allietare la famiglia di Cristo».

«È la mia quarta figlia alla quale è stato imposto il nome di Pia a ricordo del grande avvenimento. Ma, come Pietro il pescatore sentì attorno a lui tutta la vita rallegrata dal sorriso di Gesù, così la nuova Pia sente attorno a lei la miseria e vede il padre suo un povero portalettere di sobborghi che non ha diritto al premio di natalità, né di nuzialità. Una mano pietosa che a lui facesse giungere un soccorso sarebbe baciata dalla riconoscenza dell’uomo che crede in un Dio di pietà e di misericordia. Alla Santità vostra il mio pensiero riconoscente e la mia suprema invocazione. Figlio umilissimo in Gesù Cristo, Zaffarana Salvatore!» Mi strizzò l’occhio: «Una lettera perfetta: il Papa non se ne poteva uscire. Invece mi arrivò solo un telegramma: Caro Zaffarana, congratulazioni!»

Uscii. Le strade ed i vicoli erano completamente deserti, c’era freddo e vento. Nel buio sentii un rumore indefinibile e dall’angolo della piazza vidi sbucare quel vecchio cieco che camminava lentamente, tastando il suolo dinnanzi a sé con la punta del bastone: toc toc… toc toc… Arrivò ad una scala, proprio dirimpetto alla chiesa, ed esitò un istante, poi prese a salire adagio e scomparve… Chissà dove va un vecchio cieco nel buio… se capisce che è buio?

Che strana serata! La sala di lettura dove i vecchi si tenevano compagnia in attesa che passasse il tempo… le strade oscure con l’odore dei cibi d’autunno… i due musicanti nella minuscola bottega di barbiere… Zaffarana che aveva dato alla figlia il nome di un Papa… In quel momento, pensai che non avevo appreso molte cose sugli emigranti, anzi quasi niente, ed avevo solo scoperto tanti impercettibili segreti umani… La cosa più singolare era che, partendo per Caltagirone, immaginavo che sarebbe accaduto così e probabilmente c’ero venuto per questo…

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