Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.


Che poi Salvatore Riina lo diceva sempre: Matteo era una sua creatura.

Sin da quando era ragazzino avevano avuto un legame particolare: in pratica, Matteo andava a scuola da Riina. Ed era una classe speciale, quella del maestro Totò: c’era il meglio dei rampolli di Cosa nostra; i predestinati, quelli che avrebbero tramandato sangue e mafiosità e che avrebbero gestito la nostra macchina fabbricapiccioli, dato che facevamo soldi ovunque e comunque.

Era una scuola d’élite, e infatti non tutti ne facevano parte, ma solo pochi eletti: Madonia, Graviano, questo gruppo qua, insomma. Con la differenza che tutti erano già noti alle forze dell’ordine. Graviano, per dire, era ricercato dal 1984.

Matteo, invece, era l’unico che ancora era invisibile pure per gli sbirri. E come sempre accade nella nostra storia, questa alta scuola di formazione e specializzazione in mafia & affini del maestro Riina non era solo un gesto filantropico, ma aveva dell’altro.

Perché i ragazzi dotati come Matteo avevano bisogno della saggezza di Riina per sapere sfruttare meglio il loro prestigio, è vero – perché quello che vale per l’Uomo Ragno vale anche per noi: da un grande potere derivano sempre grandi responsabilità –, ma Riina aveva anche bisogno di farsi degli amici, magari giovani, fidati, sempre per l’ossessione che aveva di spiare tutti e tutto controllare.

E se mettere qualche osservatore, diciamo così, in un mandamento era cosa facile, crescere delle spie in casa, far fare ai figli le spie nei confronti dei padri, be’, questo, bisogna riconoscerlo, era un’idea geniale. E quindi il signor Totuccio voleva una classe di uomini eccezionali e fedeli come carabinieri, se ci potete perdonare l’audace paragone, ma il senso è quello.

Tanto che, più in là, quando ha avvertito, con il sesto senso che hanno i cani di mànnara, che la sua ora era giunta e che qualcuno era pronto a tradirlo come Giuda, e a consegnarlo, ci ha preso in disparte e ci ha detto: se mi succede qualcosa… ci sono i picciotti… Matteo e i Graviano sanno.

Ogni dettaglio, ogni progetto, ogni strategia. Sanno. E dispiace un po’ che poi, in quelle intercettazioni fatte in carcere, mentre passeggiava con questo Alberto Lorusso (il capo dei capi ridotto a fare confidenze a un pregiudicato pugliese, che triste fine…), Riina non si sia lasciato andare alla malinconia dei ricordi, del maestro che si vanta di avere avuto l’allievo diventato famoso, il migliore dei suoi diplomati (ma già si capiva, ah, sapesse, che testa, che sagacia, e giù magari a raccontare aneddoti e storielle… quando mai!), ma anzi, preso dall’aterosclerosi e dal rancore stupido dei vecchi, ha buttato veleno su Matteo e lo ha in pratica rinnegato: so padri bonarmuzza era un bravo cristiano, mi duna ’stu figghiu pi farini chiddru c’aviva a fari… stette quattro, cinc’anni cu mia… andava bene. Minchia, poi si mise a fare pala d’a luci, pala d’a luci a tutti i banni…

E poi un’altra volta, sempre su Matteo: l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto… ’u patri bono l’aveva avuto, bono era, il ragazzo aveva avuto questa scuola che ci fici io… minchia. E ci siamo tanto interrogati su queste parole amare di Riina del 2013. E c’erano quelli tra noi che erano disgustati, come quando ti capita la mennula, la mandorla acre in bocca, sia per la trappola in cui era caduto colui che si riteneva il più furbo di tutti, sia per il modo in cui aveva trattato Matteo e un po’ tutti noi, come se con l’affare delle pale eoliche non avessimo pagato anche un po’ i suoi avvocati… E c’erano quegli altri che dicevano che si trattava alla fine di un vecchio rincoglionito, che avrebbe anche potuto raccontare tutto a un ladro di polli nell’ora d’aria di un carcere milanese, ma tanto non gli avrebbe creduto nessuno; ormai la sua testa era andata, si poteva anche avvelenare, che da noi poi il veleno ha il sapore della mandorla amara.

Ma c’era infine chi ci spiegava: non lo capite? Non lo capite che lo fa apposta? Per difendere Matteo, per mettere distanza, per riconoscere il segno compiuto di un passaggio? Ma non lo capite che è una dichiarazione d’amore? Il maestro dice addio alla sua creatura, al suo terribile successore, e lo fa a modo suo.

Ci sta dicendo che adesso è pronto a mollare tutto e a dimenticare tutto, altroché, a morire nelle sue stelle buie. E altro che mandorle amare, ci sta lasciando con la promessa che tutto muore e rinasce sempre, come ci insegna a ogni fine gelata di febbraio il mandorlo in fiore.

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