E per migliaia di anni i siciliani, sempre più feriti, con un dolore sempre più profondo, un’anima sempre più selvatica e triste, hanno dovuto lottare, essere schiavi, liberarsi, tornare a morire. Dentro di loro c’era una speranza, un sogno: che arrivasse infine una liberazione e che non fossero gli altri a portarla, ma i siciliani stessi a redimersi. Così nacque l’Opera dei Pupi...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione
Il viaggio attraverso la Sicilia era finito. Avevamo conosciuto i dolori, i peccati e le speranze, città e luoghi così diversi l’uno dall’altro da sembrare su continenti diversi, esseri umani che non avevano niente di eguale o di comune. Ci sedemmo e l’uomo che era con me e mi aveva accompagnato per tanto tempo mi fece finalmente un suo discorso sulla Sicilia. La conclusione. Era anche lui un uomo del sud, persino nell’aspetto e nella maniera di pensare.
Nonostante tutto sembrava fiero di essere nato e vissuto nel sud. Indipendentemente da come si esprimeva e da un certo disordine del suo discorso, una cosa pareva tuttavia certa di lui: la sua sincerità. Se errore c’era, era semmai nei suoi sentimenti: troppo amore cioè e troppa speranza, troppo dolore e troppo orgoglio di essere un uomo del sud. Disse.
«Quando la gente legge che migliaia di minatori continuano a scendere ogni giorno in fondo alle terribili zolfare, per cavare un prodotto che non ha alcun valore economico e che nessuno compera più sui mercati mondiali, ognuno si sgomenta dinnanzi allo scandalo di mille miliardi buttati al vento così, per venti anni, per mantenere una struttura parassitaria che però garantisce clientele elettorali e strutture di potere; ma nessuno ha orrore che migliaia di poveri esseri umani siano costretti a scendere per otto ore al giorno, ed ogni giorno della loro vita, settecento metri sottoterra, per guadagnare appena quattrocentomila lire al mese e che non abbiano altra scelta: emigrare o accettare il salario della paura!
E quando la gente legge che centinaia di individui sono stati massacrati nei vicoli oscuri di Corleone e sulle strade maestre di Palermo e nelle piazze di decine d’altre città siciliane, ognuno trema per la fragilità ed impotenza dello stato, ma non si chiede più, anzi non si è chiesto mai, per quale pazzia dell’animo, quale umiliazione, quale disperato tentativo di ribellione un giovane che vive in uno dei cento paesi miserabili del Sud, possa decidere di diventare assassino in cambio di un milione o di un posto di bidello.
«Storicamente dev’esserci qualcosa di distorto in tutto questo! Vent’anni or sono, subito dopo la guerra, mentre lamiere insanguinate e calcinacci ingombravano ancora le strade, e l’odio e le passioni per le due o tre patrie del tempo erano ancora intatti e furenti, gli italiani conobbero il gusto acre e violento della libertà: delegare quella loro passione a coloro che meglio rappresentavano gli ideali.
Anche i siciliani ebbero l’illusione breve d’essere finalmente padroni del loro destino. In realtà non furono tanto gli uomini politici a deludere i siciliani, quanto i siciliani lentamente, oscuramente a corrompere l’anima politica, a trasformare gli uomini pubblici in quegli strumenti umani di cui sentivano di avere bisogno per la loro morale privata: uomini ai quali infine si potevano addossare tutti gli errori della vita pubblica, tutti i fallimenti, gli sperperi, le corruzioni e quindi anche il disprezzo dei galantuomini, e intanto però chiedere loro la segreta e personale complicità per i propri affari…
Sul tavolo accanto stavano sparpagliate tutte le fotografie del nostro lungo viaggio. L’uomo ne scelse una che rappresentava centinaia di persone immobili. Una folla incredibile che copriva quasi tutta la scarpata di una collina, ai margini di una strada. Così, immobili e attenti, guardavano una scena: un uomo assassinato al centro della strada e un vecchio carabiniere che lentamente tracciava col gesso la sagoma del corpo sull’asfalto.
«Certo anche in Italia, anche in Europa accade questo. È il prezzo che si paga alla democrazia, alla libertà. Gli uomini si impadroniscono della politica, deformandola, piegandola al loro interesse di gruppo o di individuo, e la politica si impadronisce del loro destino pubblico. Qui al sud però è peggio che altrove, poiché nel sud l’uomo ha la presunzione di sapere lottare da solo. Più egli ha talento e più egli diventa un uomo solo, sprezzante verso tutto il resto del mondo. Mille miliardi sprecati per le miniere di zolfo da cui non si può cavare nemmeno un fiammifero? Il bluff del ponte sullo stretto? Cento assassinii di mafia in un anno? L’uomo del sud si commuove o si indigna per un giorno. Poi pensa ai fatti suoi. I partiti sono diventati solo una struttura per amministrare questo rapporto fra il potere pubblico e l’interesse privato!»
«In fondo a tutta la tragedia siciliana c’è questo difetto umano, vale a dire la incapacità dei siciliani ad organizzarsi in una società. Dicono che la mafia dimostri semmai il contrario e questo significa non aver capito niente nemmeno della mafia. In realtà il mafioso è l’uomo più solo che esista: non ha fiducia di nessuno, né amore per nessuno, tranne che per se stesso. Se la situazione cambia, se gli conviene, è disposto a uccidere il suo alleato, oppure a dare i suoi voti politici all’avversario. La verità è che un siciliano ritiene di essere una macchina umana che riesce a funzionare da sola.
Al momento in cui tanti individui siciliani formano una società che dovrebbe essere basata soltanto sulla stima reciproca, questa società fallisce. Il fatto stesso che il siciliano sia capace di uccidere chi ha semplicemente violato la verginità della figlia non è che una esasperazione della sua personalità, una affermazione terribile di esclusività per tutte le cose che egli ritiene gli appartengano.
Il suo mondo si riduce così ad una concentrazione orgogliosa dei suoi istinti, affetti ed interessi: il mondo è soltanto la sua casa, il suo posto, il suo pezzo di terra, il grembo della moglie, la medaglietta di deputato, la salute dei figli e il rispetto degli amici. Gli amici beninteso che conosce personalmente e di cui è sicuro. Il resto è zero! Tutto questo dura anche dopo la morte.
Hai visto quei piccoli paesi miserabili che hanno però cimiteri fantastici, un groviglio di cappelle e di monumenti? I siciliani morti sono là sotto, sotto quelle pietre superbe che costano più di un appartamento civile, sembra che vogliano continuare a dire: «Io sono questo, con quest’angelo alato in cima, io sono più forte e più bello degli altri!».
Entro i confini del suo personale interesse alla vita il siciliano è un’isola al centro dell’immenso fiume umano: da questa posizione immobile egli guarda tutto il mondo che gli fluisce intorno e non se ne cura se non per maturare dei sentimenti per gli altri, la pietà, la collera, il disprezzo, l’amore… Ma sono sentimenti suoi, anche questi gli appartengono come monete e non lo legano con nessun altro, egli può cambiarli o spenderli senza dar conto a nessuno. Ecco perché i siciliani sono spesso dei vinti. Essi affrontano la vita da soli e la vita li schiaccia. Per tentare di vincere o più semplicemente di sopravvivere debbono andarsene dalla Sicilia, cioè debbono arrendersi, accettare regole e misure umane che non sono le loro. Debbono cambiare faccia. Se ne vergognano tanto che cercano goffamente di non parlare più nemmeno il loro dialetto.
Di tutti gli uomini del sud essi sono i più infelici. Ma una tragica forza romantica resta intatta dentro di loro. In una maniera o nell’altra un giorno essi cercheranno di tornare quaggiù, anche semplicemente per morire. L’uomo s’interruppe, guardò sul tavolo quelle duemila fotografie del nostro viaggio, i bambini, le cattedrali, le raffinerie, la gente che dorme accanto agli animali, gli esseri umani uccisi sulle strade di Corleone, le torri di metallo a Priolo. Riprese.
«Negli ultimi anni un milione di siciliani hanno dovuto abbandonare la terra che non dava più loro da vivere; hanno abbandonato la casa, le vecchie amicizie, i figli, e sono andati ovunque nel mondo a guadagnarsi da vivere. Mandano in patria, ognuno, una media di trecentomila lire al mese, cioè oltre trecento miliardi al mese. Quasi quattromila miliardi l’anno; il prezzo del loro sacrificio, della pazienza con cui hanno accettato la loro maniera di vivere e lottare. Sono i soldi con cui le famiglie comperano il cibo, acquistano le case, comperano gli elettrodomestici, il televisore a rate, la motocicletta, e pagano infine anche le tasse».
«Fate conto che per un anno nella economia della nazione dovesse improvvisamente mancare questo fiume di miliardi: fallirebbe metà celle piccole industrie italiane, metà degli stabilimenti che fabbricano carne in scatola, frigoriferi, scooter, tondini per l’edilizia, vestiti, scarpe, automobili, televisori. E sempre la Sicilia, anzi è sempre il sud, che sopporta il peso più amaro e disperato della nazione. Ci deve pur essere un senso morale in questa miseria che costituisce una così grande forza umana…»
Di tutte le fotografie sul tavolo, l’uomo prese quelle di alcuni bambini di Palma di Montechiaro. Ricordava certo quello che avevamo appreso un giorno: molti di quei bambini avranno una vita di venti anni inferiore alla media. Disse: «Dal fondo della sua antica, riconosciuta infelicità viene avanti, lottando ogni giorno ed ognuno lottando per suo conto. Tutti i suoi ideali, l’odio e l’amore, la pietà e la vendetta, sono ancora intatti e spesso confusi e terribili, ma tutti insieme formano una grande anima. E non c’è prezzo di violenza o di dolore ch’essa non sia disposta a pagare, pur di conquistare la sua dignità. «In verità non c’è in tutta l’Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c’è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza, e tanta violenza. tanto amore per la vita. Ecco la sua forza: il desiderio intatto e furioso di vivere. E dentro questo desiderio ci sono tutte le cose sbagliate della sua anima: l’avidità, l’ignoranza, la corruzione, il delitto, l’onore sanguinoso, le superstizioni, la convinzione di essere amico personale dei santi e potere insultare sant’Agata e santa Rosalia che non lo esaudiscono; e la povertà, l’egoismo, la superbia fanatica; ma c’è anche la sua infinita pazienza al dolore ed il suo terribile bisogno di giustizia. C’è anche la sua intelligenza ineguagliabile, il suo senso morale della morte, cioè il suo ideale che la vita sia sempre l’occasione di lottare per qualcosa.
Il siciliano viene vinto continuamente dal mondo, ma mille volte si rialza e continua a lottare. La verità è che egli è vivo come nessun altro e cerca disperatamente nella vita tutte quelle cose che possono dare una ragione alla vita stessa.» E finalmente quel mio compagno di viaggio sorrise: «Ricordi l’ultima sera? L’ultima visita, è stata in un minuscolo, selvatico teatrino dell’Opera dei pupi a Palermo. E mi sono incantato a guardare me stesso. Ho pensato ai siciliani sempre umiliati dai prepotenti, dai padroni, dagli stranieri che arrivavano da ogni parte della terra.
Improvvisamente su una spiaggia sbarcavano saraceni o arabi, con le picche e le scimitarre, ammazzavano, si prendevano le donne ed i bambini, i siciliani si difendevano come bestie, cominciavano a suonare le campane, afferravano spade, lance, forconi, coltelli.
Quante centinaia di paesi, per centinaia di anni si sono dissanguati così, alla fine restavano i superstiti, le case bruciate, le mogli e le sorelle scassate, i bambini orfani, non c’era il tempo di cominciare a mettere una pietra sull’altra che da un’altra parte, da una cresta di montagna, calavano i selvaggi biondi, si chiamavano normanni, svevi, angioini, che il diavolo li tenga nello sterco ancora per mille anni, erano più feroci degli arabi e saraceni, scannavano, predavano, stupravano, volevano il grano, l’olio, le case, il fieno, le donne. Finiva quella strage e cominciava da un’altra parte, arrivavano i turchi, gli spagnoli, i francesi, i berberi, i tedeschi di Federico… Non c’è stata terra in tutto il mondo che sia stata tanto assaltata, saccheggiata, violata, impoverita, né una popolazione che sia stata così insanguinata, ferita, uccisa, oltraggiata, perseguitata. E quando non erano gli stranieri, erano i vicerè, i baroni, i ricchi, i padroni di tutto, delle case, dei palazzi, dei castelli, delle acque, della terra, dei boschi, delle chiese.
Così per migliaia di anni. E per migliaia di anni i siciliani, sempre più feriti, con un dolore sempre più profondo, un’anima sempre più selvatica e triste, hanno dovuto lottare, essere schiavi, liberarsi, tornare a morire.
Dentro di loro c’era una speranza, un sogno: che arrivasse infine una liberazione e che non fossero gli altri a portarla, ma i siciliani stessi a redimersi. Così nacque l’Opera dei Pupi, perché raccontava ai siciliani questo sogno di sempre. Il più siciliano di tutti i pupi infatti è Orlando, che è bruno, bruciato dal sole, tradito in amore, infelice, continuamente errante, nemico di tutti, un po’ squilibrato, e senza mai paura di morire. Rassomiglia a Ulisse, a Don Chisciotte. Il sogno era che Orlando alla fine vincesse la sua battaglia umana contro tutti gli agguati dei saraceni, contro tutte le Angeliche puttane, i melliflui Carlo Magno. Che riuscisse a trovare la sua liberazione. E, quando dopo la guerra venne l’autonomia, i siciliani pensarono che quella fosse la conclusione, non politica soltanto, ma epica, sociale, civile, umana dell’Opera dei Pupi.
L’avvento finalmente di una generazione di uomini capaci, pazienti, onesti, coraggiosi, e non soltanto i pochi uomini destinati al comando, ma anche tutti gli altri, milioni, che dovevano eleggerli. E invece è stata ancora Opera dei Pupi, spettacolo soltanto però, come sempre: il palcoscenico mezzo buio, i pupari misteriosi che tirano le fila, i cavalieri di latta che si danno mazzate, fendenti, sciabolate, sputi, pernacchi, schiaffi, calci alle palle, coltellate a tradimento, si tendono agguati, si trucidano, resuscitano, congiurano, si alleano per tendersi nuove trappole, fingono di amarsi per odiarsi meglio, si derubano a vicenda e insieme derubano gli altri.
Ognuno ha il suo castello di Montalbano nella cui gola tende l’agguato agli ingenui maganzesi. Orlando è la speranza. Talvolta, in questi mesi, ho pensato che Orlando è forse solo un inganno poetico per giustificarci dinnanzi a noi stessi. Ma io sono siciliano, così profondamente, che non riuscirei a vivere senza il sogno! Il discorso di quell’uomo del sud era finito. Mi accorsi allora che ero solo e che tutte quelle cose io le avevo dette a me stesso
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