Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Un’altra giornata piena di sole e di vento. Dalle montagne di Cozzo Disi corriamo verso il mare. È incredibile come la primavera possa trasformare queste vallate nel cuore della Sicilia. Per sei mesi sono una distesa cupa di pietre, fango, creta, i dirupi grigi senza un filo d’erba, rigagnoli d’acqua che s’ingrossano e diventano fiumi e d’un tratto scompaiono sottoterra, colline aride sulle quali il solo segno umano sono gli abituri di pietra costruiti dai pecorai per ripararsi dalle tempeste e dal freddo.

Ogni tanto compare il rettilineo metallico di un binario, non si capisce da quale tunnel sbuchi e come faccia a scavalcare quelle montagne. Poi improvvisamente arriva la stagione e questa terra si copre di un’erba che cresce rigogliosamente giorno dopo giorno sempre più alta, e si copre di fiori stranissimi. Taluni pendii diventano rossi, altri gialli, in fondo alle valli i fiori sono d’uno stranissimo e tenue azzurro.

Il paesaggio ch’era cupo e immobile diventa d’una straordinaria delicatezza e il vento vi corre dentro da una valle all’altra, muovendo continuamente quel mare d’erba. Non una casa tuttavia, né un albero nemmeno sul crinale delle colline, o un segno del lavoro umano. Deserto era e deserto resta.

Ed ecco laggiù il mare, la strada si allunga in rettilinei sempre più veloci che cominciano a correre lungo la costa, poi un ciglione in bilico fra una serie di laghetti immobili, l’acqua grigia e bianca, boschi di canne a perdita d’occhio, qualche piccola barca abbandonata, le dune con un alone di polvere nel vento, l’imminenza del mare in quel vento. D’un tratto, da una curva della strada, emerge un castello a strapiombo sul mare, piantato proprio sull’ultimo dirupo.

Brutto e fantastico, immaginato da qualcuno che volesse farne non tanto una dimora, ma una prepotenza al paesaggio, una affermazione della propria presenza e potenza su quell’angolo estremo della Sicilia.

Tutto costruito in mattoni rossi, con il bugnato bianco. le torri rosse e bianche, i merli, le feritoie, i portoni di ferro, le minuscole finestre che si aprono sul dirupo marino a scrutare una distesa sulla quale al tramonto apparivano le vele scure dei saraceni e dei pirati. Costruito però quando oramai i pirati erano diventati miserabili cammellieri del deserto africano, questo Castello sembra fatto di cartone e dipinto con l’anilina, come i disegni che i bambini delle elementari fanno immaginando le dimore terribili del medioevo. Forse appunto per questo è così ridicolo e fantastico.

La strada s’impenna a gomito sul dirupo, sfiorando la costruzione e precipita giù dritta. In fondo alla strada un’altra apparizione, stavolta vera e viva: centinaia di velieri a perdita d’occhio. Arrivano da ogni parte del mare con un ronzio lieve di motori. Com’era immobile e grigio il mare lungo la riviera di levante, fino a quella piccola isola estrema, così ora, doppiato quel promontorio, esso è diventato azzurro e violento, con onde schiumose e lunghe da tutto l’orizzonte, e quella folla di velieri vi avanza ondeggiando, con le prue che sembrano sprofondare nell’acqua e poi riemergono grondanti.

Sulla riva intanto sta accadendo un movimento improvviso come se anche la costa si fosse animata d’un tratto all’imminenza dello sbarco: una fila di camion ed autotreni si è addensata sul molo e da ogni parte accorre una piccola folla vociando, gridando chiamando.

Secondo la sagoma, o il colore dei velieri che stanno varcando la punta esterna del molo, ognuno cerca di indovinare il nome dell’imbarcazione, taluno ha l’occhio così esercitato da riconoscere persino il colore di una bandierina, l’altezza di un radar o addirittura le sagome umane lungo le murate. Sole e vento, il mare azzurro e violento, delle prime ore del pomeriggio, questa danza di velieri che avanzano insieme dal largo, il molo gremito di rigattieri urlanti, le file dei camion in attesa, il porto che si gremisce di scafi.

Era la prima volta che io vedevo Porto Palo, questa punta estrema della Sicilia e mi apparve straordinaria. Salii sul veliero più vicino alla riva. C’erano solo tre uomini, l’uno seduto a prua rappezzava lentamente una rete, sembrava triste, tutto avvolto in un mantello d’incerata, con il cappuccio calato sul volto, sembrava parato per sfidare le tempeste del Baltico, e invece il sudore gli colava lentamente sul volto. Non disse una parola per tutto il tempo. Un cenno con gli occhi quando scavalcai la murata e un altro appena quando andai via.

Il secondo invece era in piedi accanto alla murata opposta, teneva in mano una canna da pesca e fissava immobile il punto in cui la lenza spariva in acqua. Il terzo aveva un vecchio cappotto militare e una coppola da contadino calcata in testa, la faccia piena di peli bianchi e un paio di baffetti come quelli di Hitler.

«Mi chiamo Sebastiano Corindia, ho 54 anni, che vuole conoscere?» Sorrideva continuamente, sapeva tutto di ogni cosa, il nome delle barche, i nomi dei marinai, la stazza, il tipo di pesce, la velocità dei velieri, il prezzo del pescato. Si era arrotolata una sigaretta con la cartina e il tabacco triturato nel palmo della mano, erano almeno dieci anni che non vedevo fare una sigaretta così.

Da come l’aveva confezionata, adagio, adagio, e dalla lentezza e voluttà con cui ora la stava fumando, era chiaro che il signor Corindia era un uomo paziente il quale sapeva quello che diceva. In meno di cento parole, pesate, mi disse tutto su Porto Palo. Cinquemila abitanti, centoventi pescherecci da settanta o novanta tonnellate, tutti armati di radio e di radar, con equipaggi di tre o cinque uomini, partivano all’alba e tornavano al tramonto, alcuni però stavano in mare anche due o tre giorni, inseguendo la passa dei pesci più grossi.

Ogni marinaio lavorava in compartecipazione con il proprietario del veliero.

All’approdo il pesce, diviso in cassette secondo la qualità, veniva consegnato al rigattiere di fiducia il quale doveva comunque pagarlo. Era affar suo rivenderlo poi ai mercanti che arrivavano da ogni parte dell’isola oppure caricarlo su un camion e portarlo nelle grandi città. Certo, il pesce era ceduto a prezzo vile ai rigattieri i quali invece avevano la possibilità di rivenderlo per il doppio o il triplo, ma il rigattiere garantiva certamente l’acquisto, se il mercato era saturo il danno era suo, e comunque nella vita ognuno ha da fare il suo lavoro; il pescatore deve uscire in mare e prendere il pesce, il rigattiere deve comperarlo appena arriva sulla banchina, il mercante deve portarlo nelle città con i camion, e il pescivendolo darlo ai suoi clienti.

Il tempo appena di fumare quella sigaretta nera e distorta, e il signor Corindia mi aveva spiegato non solo il suo paese, ma anche la legge di mercato per cui il pesce sul veliero costa appena duemila lire e voi lo dovete pagare anche diecimila. Non era addolorato di questo.

Aggiunge: «Del resto un pescatore cosa può pretendere di più? Guadagna sicuramente quattrocentomila lire al mese, ha la previdenza e la pensione, ognuno di loro possiede anche un pezzo di terra coltivato a serra o vigna. La sera va a zappare la sua terra. Mangia, beve, dorme, si vede il telegiornale, all’alba riprende il mare e torna al tramonto! È uomo contento!» «Signor Corindia, allora perché lei è così triste? Perché guarda il mare e sospira?» «Perché io sono bottaio! Fabbrico le botti per il vino.

Un mestiere triste, non succede mai niente. Perciò al tramonto vengo su un veliero per vedere le barche che tornano dal mare. I miei tre figli sono su quei velieri, e io sono capace di vedere, già a un miglio di distanza, se hanno fatto una buona pesca!» Finalmente anche l’uomo immobile vicino alla murata distolse lo sguardo dalla lenza e si volse con un sorriso: «Io sono stato brigadiere di polizia ed anche chef di albergo. Ho conosciuto il mondo. Ma il mare è il mare. Getto la lenza in acqua e aspetto. Anche se non prendo niente, sono egualmente felice!» Feci un cenno silenzioso verso quel terzo uomo, sepolto dall’incerata, che rammendava le reti e non aveva alzato nemmeno gli occhi a guardare.

Il signor Corindia fece un cenno delicato e un sussurro: «Non parla mai! Aspetta!» Non mi spiegò nemmeno cosa aspettasse perché dal molo ci distolse un clamore di motori che si avviavano, alcuni camion avevano già caricato il pesce e ripartivano, di colpo la piccola folla parve sparire dal molo.

Proprio dirimpetto all’imbarcadero c’era una specie di taverna, una costruzione di pietre e di legno, con due grandi sale fumose, un odore soffocante di pesce fritto, di vino, birra, sigarette, ed i rigattieri erano tutti là dentro ad attendere. Sembrava la scena d’un vecchio film scandinavo, i sensali erano tutti massicci, avevano berrettoni di lana, giubbotti di pelle, parlavano ad alta voce, urlavano, facevano scommesse.

Venivano da Catania, Siracusa, Palermo, persino da Bari e da Napoli, litigavano e sembrava si insultassero a vicenda, mangiavano, bevevano, si alzavano continuamente per andare a scrutare il mare, se apparissero gli altri velieri. La cosa più strana era che facevano tutto questo sempre ridendo, come se fossero animati da una continua e ansiosa allegria. Era evidente che c’era guadagno per tutti e che il guadagno era buono.

Il pesce che mangiammo era eccellente, davvero vivo, sgombri, triglie, gamberi, e il vino scuro come l’inchiostro, quasi bruciava la lingua. Al nostro tavolo c’era anche un rigattiere biondo, alto, giovane, con l’accento napoletano e tutti lo chiamavano rais, sembrava una specie di capo, ed era anche il più ansioso, chiedeva, si alzava, tornava, parlava febbrilmente: «Io sono napoletano, ma ormai vivo da dieci anni a Porto Palo. Mi chiamo Mario Gargiulo, prima facevo l’elettricista, ma poi mi innamorai di una donna di queste parti e decisi di fare il marinaio. Armai anche un peschereccio, andavo per mare insieme all’equipaggio, ora ho costruito anche questa taverna e faccio il rigattiere. Non andrò mai più via da questo paese, qui non c’è tristezza, e nemmeno violenza, non ci sono disoccupati, solo quei due o tre che non vogliono proprio lavoro, chissà cosa sognano di fare nella vita… qui non ci sono nemmeno delinquenti e ladri, si può dormire con la porta aperta».

«In questi giorni abbiamo tutti paura perché il tribunale ha mandato qui in confino un delinquente: dicono che campasse di estorsioni, un tipo triste e minaccioso che non parla con nessuno, ha fatto subito lega solo con quei due o tre che se ne stanno a pancia all’aria, dinnanzi al bar, a fantasticare. Abbiamo davvero paura. Intanto il Comune deve dargli l’allogio, il vitto e anche tremila lire al giorno. Tutti i soldi dell’ECA di questo paese se li sta mangiando lui…!»

Parlava mezzo napoletano e mezzo siciliano, un po’ buffamente, quasi dipingendo con i gesti e le mosse del volto quello che andava dicendo: «Si ricordano di noi solo per mandarci i delinquenti in vacanza. E basta! Questo è il terzo porto peschereccio d’Italia e non ci arriva nemmeno l’energia elettrica. In tutto il molo non c’è un faro, né una lampadina, una luce qualsiasi. Appena cala il buio bisogna accendere le lampare. Quando c’è il mare forte basta che scivoli un piede e bisogna poi gettarsi in acqua e riprendere quell’uomo prima che il mare se lo porti. Sa quante volte è accaduto. Per esempio…»

Chissà cosa avrebbe voluto raccontarmi ancora, ma fece quasi un salto, qualcuno aveva lanciato un grido dal molo, e in quella taverna s’erano alzati tut ti in una volta, in un clamore di urla, richiami, sedie rovesciate. A due miglia, in mezzo alla foschia dell’ultimo pomeriggio erano già apparsi alcuni pescherecci, ed altri apparivano ancora lontanissimi sul mare.

Lungo il muro della taverna erano rimasti solo quattro o cinque vecchi, seduti e immobili, in faccia al mare, e guardavano estatici. Uno scrutò per un attimo il volo dei gabbiani che vorticavano attorno ai velieri, si tuffavano come pietre, rimbalzavano quasi sul mare. Disse: «Le barche sono piene di pesce! I gabbiani stanno impazzendo!» Un altro vecchio disse: «Quest’anno il barone arma di nuovo la tonnara!»

E un terzo vecchio, sempre fissando il mare: «Io torno a comandare la ciurma. Così il barone ha detto!» Il quarto vecchio, fece una risata silenziosa: «E se ti cade la dentiera in acqua? Lo vedi che sei rimbambito oramai. Anche il barone! Che vuole fare…?» Improvvisamente il primo vecchio si alzò all’impiedi volgendosi alle spalle dei suoi compagni con un inchino umile e una vocina tremante: «Baciolemani barone!» Di colpo tutti e tre gli altri vecchi si alzarono e si volsero, annaspando con un inchino.

Non c’era nessuno! Il primo vecchio fece una sghignazzata senza denti: «Al solo nome del barone ve la fate ancora sotto! Altro che rimbambito!» Si volse a me con un sorriso di rimprovero come per dirmi che nemmeno io avevo capito niente: «Il barone è l’unico padrone del mare!» Bisognerà proprio che incontri questo padrone del mare!

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