Loro avevano già capito tutto. Un agosto di sei anni fa, qualche mese prima che venisse negoziato l’accordo di Parigi sul clima, e ben tre anni prima che Greta Thunberg iniziasse la sua protesta, ventuno ragazzini americani già bussavano alle porte di un tribunale degli Stati Uniti per chiedere giustizia. Giustizia climatica, s’intende. Il caso si chiama “Juliana v. United States”, cioè Kelsey Juliana contro gli Stati Uniti d’America. Il manipolo di teenager sosteneva nel 2015, e ribadisce oggi a maggior ragione, che le scelte politiche dannose per il clima siano anticostituzionali: né la vita, né la libertà, né la proprietà possono essere messe a rischio, dice la Costituzione americana. Perciò le scelte improvvide dell’amministrazione Usa sul clima vanno contro le norme primarie, visto che privano le nuove generazioni dei loro diritti. Mentre i disastri dovuti al cambiamento climatico si moltiplicano e gli scienziati registrano una situazione sempre più allarmante, quel caso è tutt’altro che chiuso. Dal 12 agosto 2015 a oggi, la battaglia dei ragazzini contro il governo (detta infatti anche “Youth v. Gov”) ha fatto da apripista. Ha ispirato il film-documentario Youth v. Gov, che in questi giorni continua a circolare nei festival; ha attraversato numerose aule di tribunale. Qualche vittoria c’è stata, ma la trafila giudiziaria non ha ancora un epilogo. Intanto un verdetto arriva dagli scienziati. Ieri il panel intergovernativo delle Nazioni unite sul cambiamento climatico, e cioè il gruppo di scienziati dell’Ipcc, ha pubblicato la prima parte del suo rapporto, Climate change 2021: the Physical Science Basis. Dice che abbiamo compromesso il clima come non mai, e in modo a tratti irreversibile. «Questo è un codice rosso per l’umanità», ha concluso il segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres: «Non c’è tempo da perdere». Kelsey Juliana e gli altri venti ragazzini battaglieri lo dicono da almeno sei anni; avevano capito tutto prima ancora di diventare maggiorenni. Il più piccolo del gruppo, nel 2015 aveva otto anni.

Kelsey e gli altri

Oggi Kelsey Juliana ha 25 anni, è un’attivista per il clima, dal suo profilo Twitter rilancia le idee di politici di sinistra come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, e ovviamente ritwitta Greta Thunberg. Ma Kelsey con le sue lotte è arrivata prima di Greta. Dieci anni fa, «quando avevo 15 anni, già ero impegnata attivamente per la riduzione delle emissioni», dice Juliana, il cui cognome tradisce le origini italiane: «La mia famiglia è originaria dell’Abruzzo e i miei genitori mi hanno trasmesso la passione per l’ambiente». Da quindicenne, Kelsey Juliana, con il supporto dell’associazione Our Children’s Trust, avvia un’azione legale contro il governatore dell’Oregon; lei all’epoca vive lì, nella città di Eugene. Il 2015 è l’anno in cui la battaglia diventa collettiva; all’epoca Juliana ha 19 anni; è la capofila del caso “Juliana contro Stati Uniti” ed è anche la più grande del gruppo di 21 ragazzini. Ad avviare la battaglia legale con lei, c’è persino un bambino di otto anni. Cosa li spinge? Come spiega all’epoca Kelsey, «io e i miei amici sappiamo sulla nostra pelle cosa significa il cambiamento climatico. Alcuni fra noi abitano sulla costa e l’innalzamento del livello del mare rischia di spazzar via le loro case; altri vivono in fattorie che sono messe a rischio dal surriscaldamento». Perché fare causa al governo? «Perché non siamo noi ragazzi ad aver scelto tutto questo: l’aria inquinata, gli incendi, le inondazioni». Da lì inizia una storia (legale) infinita. La Costituzione garantisce il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà, e la crisi ambientale compromette tutti questi diritti, perciò un’amministrazione che non tutela l’ambiente fa scelte anticostituzionali: questa è la tesi dei 21 ragazzi, supportati da avvocati come Julia Olson.

Sei anni per la giustizia

Se il bene dell’ambiente è anche il nostro, allora è possibile rivendicare in un’aula che – per esempio – bisogna dire addio immediatamente ai combustibili fossili? La questione è cruciale, e gli effetti così dirimenti da rimbalzare da una corte dell’Oregon fino alla Corte suprema. Il governo ha provato a liquidare la battaglia legale come una mossa politica, mentre i ragazzini, i loro avvocati e gli attivisti per il clima insistevano: «Continuare ad autorizzare e a sovvenzionare l’estrazione e il consumo di combustibili fossili contribuisce al surriscaldamento climatico e mette a rischio i nostri diritti». Da lì la richiesta, in punta di diritto e in nome della stabilità climatica, di ordinare un cambio di rotta al governo. Come nota la Harvard Law Review, si tratta «di far collassare la distinzione tra riconoscere un diritto e garantire anche che venga messo in atto un rimedio». Ecco perché gli stessi giudici hanno definito «groundbreaking», rivoluzionario, il caso Juliana v. Stati Uniti. Dopo tanti rimpalli, questa primavera un giudice ha ordinato alle parti – i ragazzi e il governo – di cercare un accordo; senza stretta di mano, l’iter giudiziario ricomincia. A giugno, preoccupati che l’amministrazione Biden potesse arrivare a un accordo coi ricorrenti, i procuratori generali di 17 stati, con capofila l’Alabama la cui governatrice è repubblicana, hanno chiesto di intervenire nel procedimento. Ragazzi e avvocati si oppongono: ormai è tardi, dicono, e inoltre gli stati non intervengono in buona fede. Manca poco al 12 agosto, sesto anniversario di questa battaglia; non c’è ancora un happy end, e intanto siamo tutti «in codice rosso».

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