Il biodiesel piace molto al nostro governo. Un po’ perché a Roma pensano di dare una mano a chi in Italia produce motori a combustione interna, anche se ormai l’industria dell’auto corre a tutta velocità verso l’elettrificazione, un po’ per accontentare l’Eni che deve tenere in piedi il suo sistema di raffinerie.

Così ai biocarburanti è dedicato molto spazio nella proposta di aggiornamento del Pniec, il Piano nazionale integrato energia e clima, inviata il 30 giugno dal ministero dell’Ambiente e sicurezza energetica (Mase) alla Commissione europea.

Del resto già in marzo i ministri Matteo Salvini (Infrastrutture), Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente) e Adolfo Urso (Imprese) avevano chiesto al vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, di inserire tra i «carburanti neutri» anche i biocarburanti, accanto agli «e-fuel» propugnati dai tedeschi e all’idrogeno. Richiesta per ora inascoltata.

Anche perché sui carburanti di origine vegetale e animale si stanno addensando nubi dense di perplessità. Due sono le domande che il mondo ambientalista si sta ponendo: siamo sicuri dell’origine delle materie con cui si creano questi carburanti “ecologici”? E i biocarburanti sono davvero “ecologici”?

Falsi rinnovabili

Dubbi fondamentali che riguardano un settore importante (oggi le società petrolifere sono obbligate a inserire nei loro combustibili una quota del 14 per cento di rinnovabili), costoso e opaco. Tanto è vero che, come ricorda Andrea Poggio, responsabile mobilità di Legambiente, «l’Agenzia norvegese per l’ambiente non ha più inserito i biocarburanti nelle proposte per il suo nuovo Piano clima».

Poggio è l’autore di un rapporto intitolato Biocarburanti, falsi rinnovabili che arriva a queste preoccupanti conclusioni: c’è il forte sospetto che dietro al commercio delle materie utilizzate per creare questi combustibili “verdi” siano maturate molte truffe ai danni degli automobilisti europei. In alcuni casi i biocarburanti emettono più CO2 del gasolio.

Materie “bio” rare e costose

Per quanto riguarda la prima zona d’ombra, bisogna intanto comprendere che i biocarburanti di prima generazione venivano realizzati utilizzando soprattutto olio di palma, messo poi al bando per i giganteschi effetti di deforestazione nei paesi produttori, Indonesia e Malesia in testa.

Oggi quindi si usano altre sostanze, come residui della spremitura dell’olio di palma, olio di cottura, rifiuti organici e scarti di biomasse agricole, grassi animali. Materiali disponibili in quantità modeste rispetto a una domanda di decine di milioni di tonnellate di gasolio e benzina. E a prezzi elevati. «Sul mercato dei carburanti, gli oli vegetali e i grassi animali di scarto sono contabilizzati al doppio del valore dell’olio di palma» spiega Poggio «e quindi offrono l’opportunità ai malintenzionati di far passare il vero olio di palma come uno scarto e guadagnarci sopra un sacco di soldi e continuando a far danni alle foreste».

In Europa nel 2019 sono state importate 1,5 milioni di tonnellate di oli esausti di cucina: soprattutto da Cina, Malesia e Indonesia, guarda caso i leader dell’olio di palma. «In Italia nel 2021 abbiamo usato appena 45mila tonnellate di olio di cottura raccolto nel nostro paese mentre ne abbiamo acquistato dalla Cina 410mila tonnellate. Se i cinesi riciclano tanto olio di frittura quanto gli italiani, servirebbe la raccolta differenziata di 500 milioni di cinesi solo per i biocarburanti usati in Italia. C’è qualcosa che non quadra».

Un recente studio dell’International Council for Clean Transportation (Icct), un’organizzazione senza scopo di lucro con sede negli Stati Uniti, ha rivelato che 151 milioni di litri di olio da cucina usato malese è stato esportato in Gran Bretagna e Irlanda, mentre la Malesia ne raccoglie appena 70 milioni di litri.

Com’è possibile? Nel 2021 la società International Sustainability & Carbon Certification aveva rimosso la certificazione da sei produttori asiatici di olio da cucina perché non avevano saputo dimostrare la provenienza del prodotto.

Il rapporto di Legambiente dimostra dunque che oltre l’80 per cento del biodiesel deriva da biomasse coltivate a rischio deforestazione, anche se vengono vendute come innocui scarti vegetali. Oppure deriva da grassi animali di classificazione incerta e fraudolenti, mischiando categorie accettate con quelle vietate. «Possiamo stimare che ben la metà del biodiesel dei grassi animali usati nel biodiesel italiano è frutto di frode» recita lo studio.

La riduzione delle emissioni

Perdipiù questi carburanti “ecologici" non contribuiscono alla riduzione delle emissioni di CO2. La Commissione europea ha disposto una completa analisi di scenario che considera anche i consumi e le emissioni causate dalla sostituzione di suolo agricolo e dalla sottrazione di foreste o torbiere, dimostrando che le emissioni complessive di CO2 per l’olio di palma sono mediamente triple della combustione di gasolio e per l’olio di soia sono mediamente doppie.

«Su 1.552mila tonnellate equivalenti petrolio di biocarburanti immessi sul mercato in Italia» dice Poggio «la maggior parte, oltre 1.100mila tonnellate, sono fortemente sospettate di non essere realmente rinnovabili, il che comporta talvolta emissioni complessive di gas a effetto serra persino superiori ai derivati dal petrolio».

Il tutto a spese degli automobilisti, che pagano di più il pieno 600 milioni di euro ogni anno. «Le emissioni indirette di gas serra rischiano essere decisamente superiori a quelle del gasolio fossile» si legge infatti nel report.

«È lecito quindi affermare che i biocarburanti usati in Italia, non hanno solo un ruolo marginale nella sostituzione di combustibili fossili, ma non contribuiscono per niente alla mitigazione delle emissioni dei trasporti: un danno all’ambiente e un costo per il consumatore».

La soluzione è, secondo Poggio, puntare sulla mobilità elettrica per le auto e limitare l’uso dei biocarburanti ai trasporti pesanti, agli aerei e alle navi fino a quando non si individuerà una soluzione più ecologica. E a minor rischio di frode.

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