Negli ultimi anni diversi studi hanno cercato di dimostrare che l’impatto globale degli esseri umani sull’ambiente e sulla natura è tale da aver dato inizio a una nuova epoca geologica, l’Antropocene. Ma solo quest’anno la questione sarà approfondita da varie commissioni scientifiche che avranno il compito di prendere una posizione ufficiale. Se decidessero davvero di dare il via alla nuova èra suonerebbe come una sentenza: «Caro uomo, hai davvero creato un pasticcio!».

Gli ultimi 11.650 anni formano un’unità di tempo geologica nota come Olocene, considerata un’epoca climaticamente favorevole nella storia del pianeta. Ha permesso alla civiltà di svilupparsi e prosperare. Ma ci sono scienziati che pensano che ci siano ormai prove sufficienti per suggerire che abbiamo lasciato l’Olocene.

Sostengono infatti, che la presenza ambientale di radionuclidi da armi nucleari, ceneri dalla combustione dei combustibili fossili, plastica nei sedimenti e altri fenomeni siano sufficiente per segnare il limite che designa l’entrata in una nuova epoca. È dominata dall’azione dell’uomo ed è iniziata negli anni Cinquanta del secolo scorso

Tra novembre e dicembre, un gruppo di scienziati avrà il compito di annunciare, se sarà il caso, l’esistenza di un posto specifico, da qualche parte sulla Terra, che si ritiene possa offrire la prova più chiara dell’alba dell’Antropocene. Questo sito verrà quindi presentato all’esame ufficiale come il “picco d’oro” che segna l’inizio dell’epoca, formalmente noto come Global Boundary Stratotype Section and Point (Gssp).

Non sarà una prassi nuova perché da sempre ogni confine tra periodi di tempo geologici diversi sono stabiliti da Gssp nominati da commissioni geologiche. Ciascuno di essi fornisce uno o più chiari segnali di un cambiamento significativo e duraturo nella biosfera terrestre, come l’estinzione o la comparsa di una specie chiave o una firma chimica significativa.

Ad esempio, una parete rocciosa vicino alla città di El Kef in Tunisia è il Gssp per la fine del Cretaceo, 66 milioni di anni fa, perché conserva una presenza particolarmente chiara di iridio (un elemento chimico) portata da un asteroide che ha innescato o contribuito alla grande estinzione dei dinosauri e di molte altre forme di vita.

«Credo ci saranno diversi siti che saranno candidati molto forti per dimostrare l’ingresso nell’Antropocene», dice Jan Zalasiewicz dell’Università di Leicester, nel Regno Unito. Quale risulterà vincitore (anche se non è una bella vittoria) dipenderà da ciò che un gruppo di 34 ricercatori dell’Anthropocene Working Group (Awg) – istituito da una sottocommissione della Commissione internazionale per la stratigrafia (Ics) – deciderà essere l’indicatore principale o il segnale principale dell’impronta dell’umanità su tutto il pianeta.

In molti pensano che l’indicatore principale possa essere il plutonio rilasciato dai test sulle armi nucleari. «E questo perché ha lasciato un’impronta molto evidente», afferma il geologo Colin Waters, segretario dell’Awg.

Ma la scelta di un limite dovrà tener conto sia della chiarezza del segnale lasciato, sia si quanto ha influenzato il pianeta. «Il picco dei radionuclidi è molto preciso, è un segnale molto chiaro», dice Waters, «ma non ha cambiato profondamente il pianeta, mentre i combustibili fossili lo hanno fatto, in quanto ha inciso profondamente sul cambiamento climatica».

Tuttavia le carote di ghiaccio contengono un’altra registrazione importante per questo scopo: la presenza del metano che dimostra l’avvento dell’uso diffuso di combustibili fossili e grandi cambiamenti nella biosfera. Altri siti sono indicatori di ulteriori elementi a dimostrazione dell’impronta umana.

In totale ci sono ben 12 siti “in gara” per essere dichiarati simbolo dell’inizio dell’Antropocene. Tra questi c’è il sedimento in una baia giapponese, la Beppu Bay, che registra una firma dei test delle bombe atomiche e contemporaneamente contiene squame di pesce che mostrano la formidabile intensificazione delle pratiche della pesca. C’è poi un piccolo lago canadese che oltre a contenere la firma delle bombe atomiche contiene anche microplastiche e così altri siti.

Squadre di ricercatori, finanziate dall’istituto culturale tedesco Haus der Kulturen der Welt (Casa delle culture mondiali), stanno lavorando per raccogliere tutti i dati stratigrafici a disposizione per dare vita ad una mostra all’Istituto a Berlino il prossimo maggio. I risultati verranno pubblicati su varie riviste scientifiche e i dati raccolti saranno messi a disposizione dell’Awg così che possa esaminarli. Una cerchia più ristretta del gruppo, composta da 22 membri, sceglierà quale sito proporre come miglior candidato per l’alba dell’Antropocene.

Per quel che riguarda il momento d’inizio della nuova èra, gli anni Cinquanta sono stati proposti da più voci.

Ma il sito potrebbe fornire anche un anno specifico, che sarebbe un’eccezione nel mondo della geologia, in quanto il margine d’errore per gli altri Gssp è dell’ordine delle migliaia o addirittura di milioni di anni. E non è escluso che possa essere ancor più preciso: «L’utilizzo dei coralli, possono definire una stagione specifica», afferma Waters a NewScientist.

Ma, nonostante i dati a disposizione, non è certo che la nuova èra sarà dichiarata ufficialmente.

Saranno necessari infatti una serie di passaggi approfonditi prima di arrivare all’introduzione dell’Antropocene, che potrebbe arrivare non prima del 2024.

La richiesta del luogo d’inizio dovrà superare una serie di gradini.

Tra l’altro ci sono alcuni ricercatori che non sono d’accordo con l’idea di definire con precisione un tempo e un luogo dove far partire l’Antropocene, in quanto, sostengono, sarebbe meglio considerarlo un evento emerso gradualmente nel tempo.

Sulle Alpi nevica plastica

In un nuovo studio, il ricercatore dell’Empa Dominik Brunner, insieme ai colleghi dell’Università di Utrecht e dell’Istituto centrale austriaco di meteorologia e geofisica, stanno studiando quanta plastica sta precipitando su di noi dall’atmosfera. Secondo lo studio, alcune nanoplastiche (pezzetti di plastica con un diametro da 0,001 a 0,1 micrometri. Un micrometro è un millesimo di millimetro) viaggiano per oltre 2mila chilometri nell’aria. Secondo i dati delle misurazioni, in Svizzera cadono ogni anno circa 43 trilioni di particelle di plastica di tali dimensioni. Ciò significa che se il numero fosse esatto si arriverebbe a circa 3mila tonnellate di nanoplastiche che ogni anno andrebbero a coprire il territorio svizzero, dalle remote Alpi alle pianure urbane.

Queste stime sono molto elevate rispetto ad altri studi. Va detto che la variabilità dei dati è legata al fatto che il mondo delle nanoplastiche è ancora in gran parte inesplorato. Il risultato della ricerca di Brunner, tuttavia, è la registrazione più accurata dell’inquinamento atmosferico da nanoplastiche mai realizzata. Per contare le particelle di plastica, Brunner e i suoi colleghi hanno sviluppato un metodo chimico che determina la contaminazione dei campioni con uno spettrometro di massa (uno strumento che determina con precisione la composizione chimica di un campione di qualsiasi sostanza).

Gli scienziati hanno studiato una piccola area ad un’altitudine di 3.106 metri in cima alla montagna Hoher Sonnenblick nel parco nazionale Alti Tauri, in Austria. Qui dal 1886 si trova un osservatorio dell’Istituto centrale di meteorologia e geodinamica. L’osservatorio è gestito dal meteorologo e ricercatore artico Elke Ludewig. Da quando le ricerche sono iniziate alla fine del XIX secolo, l’osservatorio è sempre rimasto operativo, ad eccezione di quattro giorni. E dunque i dati sono estremamente precisi. Ogni giorno, e in qualsiasi condizione atmosferica, gli scienziati hanno rimosso una parte dello strato superiore di neve attorno ad un punto definito con estrema precisione alle 8 del mattino e l’hanno conservata con cura, così da avere una cronologia dei fenomeni atmosferici senza confronti.

La contaminazione dei campioni da parte di nanoplastiche nell’aria è comunque molto difficile da studiare. Si racconta che in laboratorio, quando si maneggia un campione di neve che potrebbe contenere nanoplastiche, i ricercatori devono rimanere immobili come statue per evitare che le particelle nell’aria contaminino quelle della neve. I ricercatori comunque sono riusciti a dimostrare (grazie a dati meteorologici) che la maggiore emissione di nanoplastiche nell’atmosfera si verifica in aree urbane densamente popolate. Circa il 30 per cento delle particelle di nanoplastiche arrivate sulla cima della montagna infatti, provengono dalle città poste in un raggio di 200 chilometri. Tuttavia sembra che anche la nanoplastica degli oceani entri nell’aria attraverso gli spruzzi delle onde.

Si è potuto stabilire che circa il 10 per cento delle particelle misurate sono state trasportate sulla montagna dal vento da oltre 2mila chilometri di distanza, alcune delle quali arrivano dall’oceano Atlantico. Si stima che fino ad oggi nel mondo siano state prodotte più di 8.300 milioni di tonnellate di plastica, di cui circa il 60 per cento è ora un rifiuto. Questi rifiuti si erodono attraverso gli effetti degli agenti atmosferici e l’abrasione meccanica dando vita a particelle di varie dimensioni, fino alle nanoparticelle.

Ma non è solo la plastica scartata a produrre nanoplastiche. L’uso quotidiano di prodotti in plastica come imballaggi e abbigliamento ne rilascia in grandi quantità. Va comunque ricordato che oltre alla plastica, ci sono tanti altri tipi di minuscole particelle che fluttuano nell’aria. Non è ancora chiaro se questo tipo di inquinamento atmosferico rappresenti una potenziale minaccia per la salute degli esseri umani. Vengono risucchiate infatti, in profondità nei polmoni attraverso la respirazione, dove le loro dimensioni possono consentire loro di attraversare la barriera del sangue cellulare ed entrare nel flusso sanguigno umano. Resta da capire quanto sia dannoso, se lo è, per la salute dell’uomo.

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