Da alcuni anni l’Indonesia sta tentando di riportare in vita una parte della barriera corallina che sta in sua prossimità e che è stata gravemente danneggiata dal riscaldamento globale. Un nuovo studio, pubblicato sul Journal of Applied Ecology da un gruppo di ricercatori britannici e indonesiani guidato dall’università di Exeter, ha messo in luce un paesaggio sonoro diversificato nelle barriere coralline oggetto di ripristino.

Tim Lamont, responsabile della ricerca, ha detto: «Questo studio fornisce prove entusiasmanti che il ripristino funziona davvero: ascoltando le barriere coralline, abbiamo documentato il ritorno di una vasta gamma di animali». Alcuni dei suoni che i ricercatori hanno registrato sono stravaganti e sembra che non siano mai stati ascoltati prima.

I suoni registrati non sono identici a quelli delle barriere coralline sane, ma la loro molteplicità è simile e ciò suggerisce che gli ecosistemi siano sani e funzionanti. Le registrazioni acustiche sono state effettuate dal 2018 al 2020 e si può affermare che i risultati sono positivi e dimostrano che l’approccio del progetto è corretto.

Per realizzarlo si è fatto uso di strutture metalliche esagonali chiamate “Reef stars” che sono state impiantate con coralli e posate su un’area molto vasta. Le Reef stars hanno avuto il compito di bloccare gli avanzi delle barriere coralline degradate e, contemporaneamente, permettere una rapida crescita dei coralli, i quali portano con sé un più ampio ecosistema.

David Smith, uno dei responsabili scientifici del progetto, ha comunque detto: «Se non affrontiamo i problemi che stanno a monte della distruzione delle barriere coralline, le loro condizioni diventeranno sempre più ostili e alla fine la ricostruzione diventerà impossibile. Il nostro studio dimostra che il ripristino della barriera corallina può davvero funzionare e può essere applicato anche ad altre barriere danneggiate, ma è solo una parte di una soluzione che deve includere anche un’azione rapida sui cambiamenti climatici e su altre minacce che sono concausa della morte di barriere coralline di tutto il mondo».

La siccità del Brasile

Il Brasile possiede la più grande quantità di acqua dolce al mondo. Due terzi di ciò che scorre nel solo Rio delle Amazzoni potrebbe soddisfare la domanda mondiale. Circa il 20 per cento di tutta l’acqua globale che scorre negli oceani è generata in territorio brasiliano. 

Circa l’85 per cento del fabbisogno di acqua dolce della nazione è fornito da acque di superficie, fiumi e laghi. Negli Stati Uniti, si arriva al 75 per cento; in India è del 60 per cento. Il Brasile ha la seconda capacità idroelettrica installata al mondo, con 107,4 gigawatt (Gw) che producono il 65 per cento dell’elettricità del paese. Un quadro che mai farebbe pensare che negli ultimi mesi gran parte della nazione abbia dovuto affrontare la siccità.

È la peggiore da molti decenni in una nazione che coltiva più di un terzo delle colture da zucchero del mondo e produce quasi il 15 per cento della carne bovina mondiale. Quest’anno, tra marzo e maggio, il clima secco nella regione centro-meridionale del Brasile ha portato a una carenza d’acqua di 267 km3 nei fiumi, nei laghi, nel suolo e nelle falde acquifere, rispetto alla media stagionale degli ultimi 20 anni.

Il risultato? Molte grandi riserve d’acqua hanno raggiunto una capacità inferiore al 20 per cento. L’agricoltura e la produzione di energia sono state duramente colpite. Da luglio, i prezzi del caffè sono aumentati del 30 per cento. Da giugno 2020 a maggio di quest’anno i prezzi dei semi di soia sono aumentati del 67 per cento. E le bollette elettriche sono aumentate del 130 per cento.

Ma come è potuto accadere tutto ciò? Non c’è dubbio che il cambiamento climatico a livello planetario sta rendendo le siccità più intense e più frequenti un po’ ovunque. Ma la deforestazione in Amazzonia contribuisce a livello locale (e globale) più di ogni altra cosa. L’idroclima nella regione centro-meridionale, motore del 70 per cento del prodotto interno lordo del Brasile, è in parte controllato dal trasferimento di umidità dalla foresta pluviale. 

I flussi atmosferici causati dalla traspirazione degli alberi – noti anche come “fiumi volanti” – contribuivano con tanta acqua al giorno nelle precipitazioni quanto lo stesso Rio delle Amazzoni ne trasporta. L’abbattimento della foresta però, riduce le precipitazioni su quelle aree, oltre ad erodere un cruciale pozzo di carbonio globale. Decenni di deforestazione dell’Amazzonia hanno portato a vasti effetti a catena. 

L’abbattimento degli alberi, oltre a ridurre la quantità di umidità trasportata dalla foresta pluviale verso il Brasile centro-meridionale, è la causa principale degli incendi. Il particolato rilasciato nell’aria superiore altera la formazione delle nuvole di pioggia. Anche l’uso improprio del suolo può peggiorare la siccità e persino far seccare i fiumi. 

L’allevamento intensivo del bestiame porta a terreni non vegetati e terreni compatti. Oltre a diminuire la quantità di umidità ceduta dalle piante, limita la capacità del suolo di trattenere l’acqua e ricaricare le falde acquifere.

Come sottolinea uno studio apparso su Nature, la deforestazione, l’errato uso del suolo, la combustione della biomassa e il riscaldamento globale interagiscono per determinare la disponibilità di acqua.

Per ridurre questa vera e propria catastrofe, di cui troppo poco si parla, sarebbe necessario un forte intervento computazionale per capire meglio i processi veloci che stanno avvenendo su piccola scala, come la morte della vegetazione, la copertura del suolo, le nuvole e gli effetti di feedback sul clima.

La “nube” misteriosa nello spazio

È dal 2011 che numerosi astronomi studiano uno strano oggetto che si è avvicinato al buco nero che c’è nel cuore della nostra galassia, la via Lattea. Inizialmente sembrava una nube di gas e polveri, chiamata G2, in passaggio radente e si era ipotizzato che sarebbe stata inghiottita totalmente dal buco nero stesso, chiamato SgrA*, producendo “esplosioni” visibili da Terra.

Anche se l’idea della “nube radente” era la più plausibile, dubbi se ne avevano. A partire dalla temperatura, troppo elevata per una nube simile. Si ipotizzava tuttavia che ciò fosse dovuto al riscaldamento indotto dal gran numero di stelle presenti in quello spazio.

Ma anni di osservazioni hanno visto quell’oggetto passare radente quasi indenne vicino al buco nero, per poi riprendere la sua strada verso le profondità dello spazio. Ora un nuovo studio pubblicato su Astrophysical Journal, riporta cosa è realmente quell’Ufo astronomico e ciò grazie a ripetute analisi effettuate dal 2005 al 2019 a varie lunghezze d’onda raccolte dal Very large telescope dell’European southern observatory. Ecco il verdetto dei ricercatori: si tratta di tre giovani stelle in evoluzione.

Florian Peißker, uno degli astronomi dello studio, spiega: «Mai prima d’ora erano state osservate stelle più giovani di quelle trovate in prossimità di SgrA*». La scoperta se da un lato pone fine a un mistero, dall’altro apre un’infinità di domande.

Ci si chiede infatti, come quelle stelle abbiano potuto sopravvivere tutte e tre al buco nero e come possano essersi formate vicino ad esso visto che i buchi neri certamente non agevolano la nascita di nuove stelle. Domande a cui si dovranno dare risposte che risulteranno utili anche per studiare il cuore di altre galassie, visto che per la maggior parte contengono tutte un gigantesco buco nero.

La più antica neonata

In una grotta nell’entroterra di Albenga, in provincia di Savona, un gruppo internazionale di ricercatori ha scoperto la più antica sepoltura di una neonata mai documentata in Europa. La piccola bambina – che gli studiosi hanno soprannominato “Neve” – è vissuta circa 10mila anni fa, durante la prima fase del Mesolitico, un periodo che ha segnato probabilmente grandi cambiamenti sociali nelle popolazioni umane, legati agli adattamenti dovuti alla fine dell’ultima era glaciale.

Insieme ai resti della neonata è stato ritrovato un corredo formato da oltre 60 perline in conchiglie forate, quattro ciondoli, sempre forati, ricavati da frammenti di bivalvi, e un artiglio di gufo reale.

La scoperta è stata pubblicata su Scientific Reports. «Capire come i nostri antenati trattassero i loro morti ha un enorme significato culturale e ci consente di indagare sia i loro aspetti comportamentali che quelli ideologici», spiega Stefano Benazzi, professore al dipartimento di beni culturali dell’Università di Bologna, tra i coordinatori dello studio.

«Questa scoperta permette di indagare un eccezionale rito funerario della prima fase del Mesolitico, un’epoca di cui sono note poche sepolture, e testimonia come tutti i membri della comunità, anche piccole neonate, erano riconosciuti come persone a pieno titolo e godevano in apparenza di un trattamento egualitario».

L’istologia virtuale delle gemme dentarie della neonata – realizzata al Bones Lab dell’Università di Bologna grazie ad immagini al sincrotrone di un dente ottenute al centro Elettra Sincrotrone di Trieste – ha permesso di ottenere informazioni preziose sia sulla piccola Neve sia sulla madre.

L’analisi del genoma e dell’amelogenina, una proteina presente nelle gemme dentarie, ha rivelato che al momento della morte, Neve aveva tra 40 e 50 giorni. Sempre a partire dalle gemme dentarie, lo studio del carbonio e dell’azoto ha evidenziato che la madre di Neve si nutriva seguendo una dieta a base di prodotti derivanti da risorse terrestri (come ad esempio animali cacciati) e non marine (come la pesca o la raccolta di molluschi).

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