Il summit globale sul clima organizzato per il 22 e 23 aprile dagli Stati Uniti era una delle promesse elettorali di Joe Biden per riparare quanto rotto da Donald Trump. «Un evento diplomatico da tenere nei primi cento giorni della sua presidenza», così diceva il suo programma e così ha fatto, approfittando dell'Earth Day, la giornata di azione ecologica inventata dai progressisti americani nel 1970. Questo summit fa parte dell’attivismo diplomatico iniziato con la nomina di John Kerry come inviato speciale per il clima e che ha visto il culmine con l'ordine esecutivo che ha fatto rientrare gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi. Le parole chiave di questa fase e del summit sono leadership e fiducia. La leadership è quella americana sulla transizione ecologica, che Biden sta provando a impostare. Ma non c’è guida senza fiducia, e quella nei confronti dell’America come leader ambientale credibile sarà da ricostruire un pezzo alla volta, dopo gli anni catastrofici di Trump e il trauma dell’uscita dall’accordo di Parigi.

Erano quattro anni che gli Stati Uniti non partecipavano a un evento sul clima, un buco temporale e diplomatico da riempire e compensare. Il contesto di questo summit è l’idea – riconosciuta un po’ da tutti – del 2021 come anno chiave dell’azione sul clima, perché di tempo per correggere la rotta ormai non ce n’è più molto e occasioni come la ripresa post pandemia non torneranno. Se la Cop26 di Glasgow a novembre è l’esame finale per questa maturità ambientale, il summit di Biden è come una verifica del primo quadrimestre.

L’ambizione americana

Il meeting virtuale di 40 paesi è innanzitutto uno stress test per la capacità di leadership americana. «È una grossa scommessa, è forse perfino troppo presto per Biden», dice Valentino Piana, esperto di negoziazioni sul clima. Qui entra in gioco una terza parola chiave: ambizione. Gli Stati Uniti annunceranno probabilmente nuovi obiettivi di decarbonizzazione in occasione dell’evento, ci si aspetta un raddoppio del taglio delle emissioni nel medio termine. La scommessa di Biden è spingere altri partecipanti, in particolare India, Russia e Cina, a fare altrettanto. È su questo filo che si gioca tutto il significato dell'inusuale summit fuori calendario. «Bisogna anche vedere se e come la Cina parteciperà, se ci sarà Xi Jinping o se farà presenziare una delegazione di livello inferiore. Una prima grande asticella è che tutti gli invitati partecipino davvero, di solito ci vogliono anni per costruire eventi come questo», aggiunge Piana. Se il 24 aprile avremo solo collezionato defezioni, parole o vaghe intenzioni, sarà la misura di quanto lavoro ci sia ancora da fare per rimettere gli Stati Uniti al centro dell’azione climatica. Se al contrario usciranno impegni precisi, sarà la certificazione che l’America è tornata al volante: non è affatto scontato che i rivali sulla scena mondiale – Cina in testa – vogliano concedere a Biden questo successo, soprattutto dopo l’incontro a nervi tesissimi dell’ultimo vertice bilaterale in Alaska. È per questo motivo che quasi più importante del summit in sé è il lavoro che John Kerry sta facendo sullo sfondo, soprattutto sull’asse Washington–Pechino: il punto è evitare che le tensioni su altri fronti (tecnologia, commercio, diritti umani) inquinino la diplomazia del clima. «La cooperazione con la Cina è cruciale», ha detto Kerry alla Cnn. «Abbiamo grandi disaccordi su alcune questioni chiave, ma il clima deve essere una cosa a parte».

Ricucire lo strappo

Servirà enorme capacità diplomatica per riuscire davvero a tenere l’ambiente come una questione separata, in un momento in cui le tensioni non fanno che moltiplicarsi. Tra gli invitati al vertice c’è Vladimir Putin, al quale Biden ha da poco dato dell’assassino. «Quello di Parigi non è solo un accordo per mitigare il riscaldamento globale, è anche un accordo di pace, quei risultati non possono essere raggiunti senza cooperazione», spiega Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace, che dal summit si aspetta l’inizio della costruzione di un vero «green deal globale», che diventi uno strumento pratico per spostare l’asse degli investimenti. «Siamo di fronte a una faglia sismica della storia, nella quale il vecchio mondo continua a cercare di fare resistenza. Trump è stata l’espressione politica dell’opposizione fossile al cambiamento». Per questo motivo il vertice di Biden ha innanzitutto lo scopo di ricucire quanto è stato strappato dal suo precedessore, «è un modo per riattivare la conversazione tra le grandi potenze mondiali», secondo Luca Bergamaschi del think tank sul clima e l’energia Ecco. «Non è un caso che Biden entri nella scena internazionale proprio sull’ambiente. Il gap tra quello che dovremmo fare e quello che facciamo è ancora ampio. Buona parte del significato politico del vertice è allineare la finanza pubblica e privata agli obiettivi che ci siamo dati».

Vittime e carnefici

In questo senso la peculiare lista degli invitati di questa sorta di G20 allargato funge anche da mappa delle intenzioni di Biden. Ci sono i grandi inquinatori (tra cui i padroni di casa), ma anche le Isole Marshall e il Bangladesh, in rappresentanza delle principali vittime della crisi climatica. Ci sono grandi paesi forestali, in rappresentanza dell’assorbimento di carbonio e dell’urgenza di tutelare le foreste tropicali: la Repubblica democratica del Congo e il Brasile (posizione delicatissima). Ci sono Erdogan e Ursula von der Leyen, primo incrocio dopo il “sofagate”. Ci sono le principali economie europee e c’è anche la Polonia, in grave imbarazzo quando si parla di decarbonizzazione, vista la sua difficoltà a rinunciare alle fonti fossili e al carbone. E ci sono paesi considerati virtuosi, come la Danimarca, la Norvegia e il piccolo Bhutan, del quale si parla per il suo essere carbon negative (più assorbimento di carbonio che emissioni), per le politiche sui rifiuti zero e il cibo 100 per cento bio per tutti gli 800mila abitanti del piccolo regno himalayano. Ma non c’è nessun invitato più centrale di Xi Jinping. La posizione cinese sull’ambiente è piuttosto ambigua. La data per la neutralità carbonica cinese è il 2060, nel presente però si sente ancora persistente l’odore della fonte energetica più inquinante: il carbone, che nel mondo (secondo i dati di Global Energy Monitor) è tornato a crescere proprio per l’effetto delle nuove centrali aperte nelle remote province cinesi, affamate di energia e ben fornite di miniere. Gli Stati Uniti chiedono impegni a breve termine su questo aspetto, sia per il fronte interno che per i paesi partner della Belt and Road Initiative, e soprattutto dettagli su come la Cina intenda arrivare a zero emissioni entro il 2060. La Cina chiede un rilancio della finanza climatica, i fondi in aiuto ai paesi più poveri per la transizione ecologica.

Il “debutto” di Draghi

In tutto questo c’è l'Italia. Dopo il promettente debutto «ambientalista», Draghi è stato travolto dalla campagna vaccinale e la questione sembra tornata sullo sfondo. Il summit sarà il primo momento in cui si esporrà a livello internazionale sul tema. «Dal momento che la finanza sarà uno dei focus dell’incontro, la sua esperienza come banchiere centrale europeo può essere fondamentale, Draghi può essere la figura politica che più di tutti spinge per una trasformazione ecologica del sistema finanziario», ragiona Luca Bergamaschi. Valentino Piana sintetizza così: «Sarebbe grandioso se Draghi replicasse il suo whatever it takes sulla finanza ambientale, ha il peso e la credibilità per farlo». Il cuore della diplomazia sul clima però è che quella credibilità non può essere solo personale, ma va supportata sul piano delle politiche nazionali. Sia Piana che Onufrio di Greenpeace sottolineano come Biden abbia tagliato 15 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi. Riuscire finalmente a fare qualcosa di simile sarebbe un viatico per il ruolo dell’Italia, che deve essere di propulsione, in quanto presidente del G20 e co-organizzatrice della Cop26. Chiederemo tanto a molti paesi, dobbiamo avere le carte in regola per farlo. Per Draghi sarà in ogni caso una settimana ecologicamente complessa: prima il summit internazionale sul clima, pochi giorni dopo la discussione in parlamento sul Recovery plan, nel quale verranno valutati i piani di spesa per il 37 per cento dei fondi destinati alla transizione ecologica e tutto l’impatto ambientale della ripresa.

Ma per il presidente del Consiglio la parte più importante della diplomazia climatica verrà nella seconda parte dell’anno, nella quale (si spera) sarà meno preso dalla vaccinazione nazionale. «Non solo per il ruolo nel G20 e nella Cop», spiega Bergamaschi, «ma anche perché Merkel esce di scena con le elezioni, Macron entra in campagna elettorale, lui resta con Ursula von der Leyen l’unico leader europeo di peso in grado di rappresentare e guidare l’Unione, dovrà aprire canali di dialogo con Cina e India in vista di Glasgow. La sua capacità di soft power per certi versi sarà più importante di quella di Biden». Anche su questo fronte, però, il carisma personale di Draghi da solo non sarà sufficiente. L’Italia non potrà spingere la transizione ecologica globale se non avvierà concretamente la sua.

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