Ci stanno riprovando. Dopo una lunga serie di tentativi – l’ultimo risale a dicembre scorso – il governo vorrebbe mettere mano alla legge che tutela la fauna selvatica, con un ddl bollato dal ministero dell’Agricoltura, che ne propone modifiche profonde e strutturali. Ed è certamente curiosa la tempestività con cui la “Relazione illustrativa e tecnica” ha iniziato a circolare, proprio nelle stesse ore in cui alla Camera dei deputati si stava tenendo un evento di segno opposto.

«Siamo qui oggi per presentarvi, attraverso i dati raccolti sugli Ibis eremita, l’allarmante situazione del bracconaggio che dilaga in Italia e che necessita un intervento non più procrastinabile». È infatti con queste parole che Laura Stefani, biologa e portavoce del Waldrappteam, ha aperto i lavori del convegno dedicato al contrasto ai crimini contro la fauna selvatica. Il caso dell’Ibis eremita, specie simbolo di conservazione tornata a migrare in Europa grazie a un progetto LIFE, ha offerto lo spunto per una riflessione più ampia: quella sull’efficacia – o sulla mancanza – degli strumenti normativi oggi a disposizione per tutelare gli animali selvatici in Italia.

Il caso Ibis eremita tra fucili e carenze normative

Il bracconaggio infatti è la prima causa di morte per l’Ibis eremita in Italia. Mentre negli altri paesi dove è attivo il progetto (Spagna, Germania, Austria), i casi rasentano lo zero, nel nostro paese i numeri sono allarmanti. Il progetto europeo, portato avanti da oltre vent’anni per reintrodurre la specie in Europa (estinta), ha permesso di documentare con precisione 71 casi di bracconaggio nel nostro paese. Grazie all’impiego di dispositivi Gps e a un sistema di tracciamento costante, oggi è possibile determinare la causa di morte del 56 per cento degli esemplari. E per oltre un terzo di questi, la causa è il piombo di un fucile.

E proprio mentre i dati scientifici ci restituiscono l’immagine di una natura sotto assedio, il governo sta provando – pare entro fine estate – a portare alle Camere un disegno di legge che propone modifiche sostanziali alla legge 157 del 1992, smantellando progressivamente l’impianto normativo costruito per proteggere la fauna selvatica.

Cosa prevede il disegno di legge

Tra i punti più controversi c’è l’introduzione esplicita dell’idea che la caccia, oltre a essere un’attività legittima, contribuisca alla tutela della biodiversità. Un’affermazione che appare ideologica, se non provocatoria, proprio alla luce dei dati che emergono dal campo.

Eppure è così che si vorrebbe riformulare l’articolo 1 della legge: si afferma che l’attività venatoria, se esercitata nei limiti, concorre alla conservazione degli ecosistemi. A questo si aggiunge una maggiore flessibilità nei calendari venatori, la possibilità di cacciare dopo il tramonto, su terreni innevati, e l’estensione dell’uso dei richiami vivi, anche catturati in natura, una pratica che l’Europa stessa ha più volte messo in discussione per il rischio di bracconaggio e traffico illegale di fauna.

Il quadro che emerge dall’analisi del testo è quello di un vero e proprio cambio di paradigma. Non si tratta di semplici aggiornamenti tecnici, ma di una revisione profonda dell’impianto della legge. Il concetto di protezione della fauna viene assorbito all’interno di una logica di “gestione faunistica” in cui i cacciatori non sono più soggetti regolati, ma attori centrali.

Le regioni ottengono maggiore autonomia nel definire le stagioni di caccia, persino in deroga ai pareri scientifici di Ispra, mentre i limiti oggi vigenti – come quelli sulle aree protette, gli orari o i richiami vivi – vengono erosi in modo sistematico. Nel frattempo, le sanzioni per chi ostacola i piani di contenimento aumentano (fino a 900 euro), ma non si introduce alcun rafforzamento delle misure contro il bracconaggio.

Servono riforme istituzionali

Stefani ha ricordato come gli Ibis eremita siano oggi una delle popolazioni di uccelli migratori più monitorate d’Europa, anche grazie a un’app gratuita – Animal Tracker – che permette a chiunque di seguire i movimenti degli animali. Questo livello di tracciamento ha consentito non solo di scoprire l’entità del bracconaggio, ma anche di rilevare che il 90 per cento delle uccisioni avviene proprio durante la stagione venatoria.

Eppure «l’attuale quadro normativo italiano è profondamente inadeguato, non garantisce un’effettiva protezione e permette la perpetrazione di questi reati», ha aggiunto la biologa. «Serve un’azione su due fronti: riforme istituzionali che fungano da deterrente ed efficaci strumenti tecnologici e giuridici per sostenere le indagini».

Nel frattempo, sul fronte legislativo, sembra accadere il contrario. Il disegno di legge in arrivo sembra scritto per assecondare le richieste del mondo venatorio, in assenza di confronto con il mondo scientifico e in aperto contrasto con i principi costituzionali di tutela dell’ambiente e con le direttive europee. Non solo si rischia un nuovo isolamento dell’Italia sul piano comunitario, ma si sancisce un precedente pericoloso: l’idea che la natura possa essere amministrata come una risorsa a uso esclusivo di chi la sfrutta.

«Ogni Ibis ucciso non è solo una statistica», ha concluso Stefani, «ma un’occasione mancata per raggiungere l’autosufficienza dell’intera popolazione. Se non riusciamo a proteggere loro, che sono monitorati con una precisione senza precedenti, cosa succede agli altri animali che nessuno osserva?». È una domanda lecita e quanto mai attuale, visto anche il testo che sta circolando.

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