I pianeti, come è noto, non emettono luce propria ma riflettono quella che arriva dal sole. Questa capacità di rinviare la luce solare nello spazio è chiamata albedo. Anche la Terra possiede il suo albedo che corrisponde a una riflessione della luce incidente di circa il 38 per cento (si dice che ha un albedo di 0,38), ma ora sembra che stia diminuendo in intensità. Stando a uno studio pubblicato dell’American Geophysical Union (Agu), la causa sarebbe da ricercare nel riscaldamento globale. Come se ne sono accorti gli scienzati? Ci sono riusciti attraverso due strade: da un lato analizzando i dati provenienti dai satelliti artificiali che tengono sotto controllo il nostro pianeta, dall’altro studiando la luce del sole che riflettendosi sulla Terra va a illuminare la superficie lunare.

Attraverso queste due strade hanno potuto stabilire che nei 25 anni successivi al 1998 si è verificato una significativa diminuzione dell’albedo della Terra. I calcoli hanno permesso di stabilire che ai nostri giorni il nostro pianeta sta riflettendo circa mezzo watt in meno di luce solare per ogni metro quadrato della sua superficie o se si vuole di un calo dello 0,5 per cento rispetto a quanto faceva circa 25 anni fa. Va sottolineato comunque che il più forte calo si è avuto negli ultimi tre anni tra quelli analizzati. Spiega Philip Goode, autore dello studio e ricercatore del New Jersey Institute of Technology: «Per me e per tutti coloro che hanno realizzato la ricerca il risultato è stato davvero una sorpresa, soprattutto il calo degli ultimi tre anni».

Alla domanda «cosa ha fatto diminuire l’albedo?» la risposta dello scienziato è stata: «Ci sono solo due strade che possono influenzare l’abbassamento del livello di riflettanza della Terra». Il primo è una possibile diminuzione della luminosità del sole che non c’è stata però, il secondo arriva dal nostro pianeta. Stando ai ricercatori la causa prima potrebbe essere da trovare nei cambiamenti climatici in atto. «Probabilmente – continua Goode – il calo è da collegare a una riduzione delle nubi basse, quelle che riflettono maggiormente la luce solare e questo in particolare sta avvenendo sull’area dell’oceano Pacifico al largo del Nord e del Sud America».

Il calo è stato registrato dai satelliti della Nasa che fanno parte del progetto Earth’s Radiant Energy System. «In tali aree oceaniche – sottolinea lo scienziato – sono stati registrati degli anomali aumenti delle temperature della superficie del mare, che sarebbero da ricondurre a una condizione climatica denominata Pacific Decadal Oscillation (Oscillazione pacifica decennale, Pdo) che sembra essere influenzata dai cambiamenti climatici in atto. Naturalmente ci si è chiesti cosa potrà provocare questa “riduzione nell’albedo” della Terra e stando ai ricercatori non è da escludere che come conseguenza vi sarà un aumento dell’energia solare che arriverà sul nostro pianeta, la quale verrà assorbita dall’atmosfera e dagli oceani e conseguentemente vi sarà un aumento della temperatura terrestre.

C’è da preoccuparsi? Risponde Edward Schwieterman, scienziato planetario dell’Università della California a Riverside che non ha partecipato alla ricerca, ma ne ha studiato i dati: «La situazione la definirei “preoccupante”, anche perché ci si aspettava un aumento dell’albedo e non una diminuzione. L’aumento avrebbe portato alla formazione di un maggior numero di nubi che avrebbero permesso di riflettere maggiormente la luce solare». Ma sembra proprio che si vada nella strada opposta.

Gli effetti del Covid sulle città

Un recente studio pubblicato sulla rivista Urban Climate, condotto dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con vari altri centri di ricerca, ha analizzato l’impatto sulla composizione atmosferica in cinque siti urbani italiani durante il periodo tra il 24 febbraio e il 4 maggio 2020 quando la maggior parte delle persone era confinata nelle proprie case durante la prima ondata della pandemia da Covid-19.

Nel lavoro sono state prese in considerazione le città di Aosta, Milano, Bologna, Roma e Taranto, caratterizzate, per posizione geografica, da diverse condizioni meteo-climatiche. Spiega Monica Campanelli del Cnr-Isac: «I parametri misurati nelle diverse città sono stati confrontati con quelli rilevati in un periodo di riferimento di 5 anni che va dal 2015 al 2019, escludendo i giorni caratterizzati da eventi quali l’arrivo di fumo proveniente dagli incendi dall’Europa orientale e dal Montenegro, le polveri dall’area del Caspio e dal Sahara, gli inquinanti dalla pianura Padana verso Aosta».

Ebbene il confronto ha evidenziato una drastica diminuzione del Pm10 (da un massimo di -52 per cento ad Aosta, a un minimo di -4 per cento a Taranto), del Pm2.5 (da -46 per cento ad Aosta e Milano, a -0,6 per cento a Bologna), dell’No2 (da -72 per cento a Roma , a -4 per cento a Taranto) e delle concentrazioni del benzene (circa -50 per cento in tutte le città a eccezione di Taranto).

«Rispetto a studi precedenti – sottolinea Campanelli – questo lavoro ha mostrato l’influenza delle condizioni meteorologiche sulla concentrazione dei Pm. Il confronto fra le misure delle concentrazioni di gas e particelle prima e durante il periodo di confinamento è importante per studi aventi come obiettivo la correlazione tra emissioni da traffico e inquinanti. L’impatto della riduzione delle emissioni da traffico dà un quadro di quello che potrebbe essere lo scenario di un futuro caratterizzato dall’aumento su larga scala dei veicoli elettrici».

I costi dell’inquinamento

Quanto ci costa in termini economici l’inquinamento industriale? Uno studio dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) stima che, sulla base dei dati di emissione rilevati dall’European pollutant release and transfer register, i costi sociali dell’inquinamento atmosferico industriale sono ancora estremamente elevati nonostante gli sforzi fatti per abbassare le emissioni dannose.

In totale si stima che l’inquinamento atmosferico e i gas serra emessi dai grandi siti industriali in Europa siano costati alla società tra 277 e 433 miliardi di euro. Ciò equivale a circa il 2-3 per cento del Pil dell’Ue ed è superiore alla produzione economica totale per l’anno di studio, ossia il 2017, di molti singoli stati membri.

Quel che risulta molto particolare è il fatto che il numero delle strutture inquinanti e che causa i maggiori costi economici è relativamente ridotto. Si è trovato infatti, che sono 211 i siti – tra gli 11.655 impianti che sono stati segnalati per emissioni di inquinanti dal rapporto dell’E-Prtr nel 2017 – e hanno causato il 50 per cento dei costi dovuti ai danni relativi ai principali inquinanti atmosferici e gas ad effetto serra.

Gli inquinanti provengono soprattutto da Germania, Regno Unito, Polonia, Spagna e Italia. I principali inquinanti atmosferici esaminati comprendono il particolato (Pm2,5; Pm10), l’anidride solforosa (So2), l’ammoniaca (Nh3), gli ossidi di azoto (Nox) e i composti organici volatili non metanici (Covnm). I metalli pesanti coperti includono arsenico, cadmio, cromo VI, piombo, mercurio e nichel. Gli inquinanti organici studiati includono butadiene, benzene, formaldeide, idrocarburi policiclici aromatici (Ipa), diossine e furani. I gas serra (Ghg) valutati sono anidride carbonica, metano e protossido di azoto.

Le centrali termoelettriche, per lo più alimentate a carbone, causano i maggiori problemi alla salute delle persone e all’ambiente: 24 delle 30 strutture più inquinanti sono proprio centrali termoelettriche, con quindici situate nell’Europa occidentale e settentrionale (sette in Germania) e altre nove nell’est e nel sud Europa orientale. Mentre la centrale elettrica più inquinante si trova in Polonia, quattro delle prime cinque sono in Germania. In Italia abbiamo almeno un paio di grandi emettitori di inquinanti che sempre per il 2017 hanno causato danni superiori agli 800 milioni di dollari. L’analisi tiene conto delle quantità e della diffusione dei diversi inquinanti dalle loro fonti industriali, degli effetti sulla salute delle persone, degli ecosistemi, del clima e dell’agricoltura e dei relativi costi monetari.

Gli inquinanti possono arrivare alle persone in modi diversi. Un esempio è l’inalazione. Coloro che vivono in grandi città o regioni industriali sperimentano in genere più inquinamento rispetto alle comunità rurali. Per altri inquinanti, come i metalli pesanti, il percorso è più complesso. Può avvenire per inalazione, ma anche attraverso il consumo di cibi e bevande contaminati. Oltre alle persone, l’inquinamento atmosferico e/o le emissioni di gas serra danneggiano anche piante, animali e i loro habitat, alterando i cicli riproduttivi e la biodiversità. Gli inquinanti possono anche depositarsi su edifici e monumenti e corrodere infrastrutture vitali che richiedono riparazioni costose.

Si avvicina la cometa “più grande”

Un’enorme cometa, forse la più grande mai rilevata dall’uomo, si sta dirigendo verso il sistema solare interno dove dovrebbe arrivare tra circa 10 anni. La cometa, nota come cometa Bernardinelli-Bernstein, dal nome degli scopritori o C/2014 Un271, ha un diametro di almeno 100 chilometri. È così grande che gli astronomi in precedenza l’avevano scambiata per un “pianeta nano”.

Ma un’analisi più attenta dell’oggetto ha rivelato che si stava muovendo rapidamente attraverso la nuvola di Oort (un vasto deposito di comete che si trova a miliardi di chilometri dalla Terra) verso il cuore del sistema solare. L’oggetto inoltre, ha iniziato a produrre un involucro luminoso, o “coma”, attorno a esso, una chiara indicazione di una cometa ghiacciata che si sta avvicinando al sistema solare interno. Va subito sottolineato che l’enorme oggetto non rappresenta alcuna minaccia per la Terra. In questo momento, Bernardinelli-Bernstein si trova ancora nella nube di Oort a una distanza che è circa 29 volte la distanza tra la Terra e il sole, o 29 unità astronomiche (Ua).

Secondo i ricercatori, l’approccio più vicino della cometa alla Terra avverrà nell’anno 2031, quando gli scienziati prevedono che la cometa si troverà a circa 10,97 Ua dal sole, quando si troverà appena al di là dall’orbita di Saturno. Dopo aver definito la traiettoria della cometa, gli autori dello studio hanno calcolato che non è la prima volta che si avvicina al sole, ma lo fece almeno una volta 3,5 milioni di anni fa, arrivando però a circa 18 Ua dalla nostra stella. Da allora la cometa se ne è tornata nello spazio più lontano per arrivare fino a 40.000 Ua di distanza dal sole, nelle profondità della misteriosa nube di Oort.

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