Sono molti i tentativi di coloro che vogliono screditare le ricerche sui cambiamenti climatici nel trovare appigli circa la verità sugli studi stessi. Uno di questi è quello di sostenere che “da sempre” quando sulla Terra si è verificato un aumento della temperatura atmosferica il fenomeno ha preceduto l’aumento dell’anidride carbonica. In altre parole si sostiene che qualche fenomeno naturale fa aumentare la temperatura, e, conseguentemente, i mari, proprio per tale crescita della temperatura, rilasciano CO2. E ancora recentemente un articolo scientifico di Demetris Koutsoyiannis, idrologo all’università di Atene, intitolato “Galline, uova, temperature e CO2: nessi causali nell’atmosfera terrestre”, è tornato a sostenere questa ipotesi.

Va detto che la rivista Sci - MDPI, su cui è stato pubblicato l’articolo, non ha praticamente citazioni da altri articoli per il suo basso valore nel settore della climatologia. Ma tornando a Koutsoyiannis, questi ha voluto studiare le relazioni tra la differenza di temperatura e la differenza di concentrazione di CO2 atmosferica nel corso degli ultimi sei decenni. Le sue conclusioni, riportate con chiari grafici, dimostrerebbero che all’aumento della temperatura vi è un aumento della CO2 circa sei mesi dopo.

Ma non succede mai il contrario. E allora cosa c’è di più evidente? «Non è la variazione dei livelli di CO2 a influenzare le temperature», come sostiene l’Ipcc e migliaia di ricercatori, «ma l’esatto opposto». E se poi – dice Koutsoyiannis – consideriamo che attualmente le emissioni dovute alle attività umane rappresentano solo il 4 per cento del totale, è evidente che le emissioni naturali sono dominanti e il loro aumento – a causa dell’aumento della temperatura – è più di tre volte superiore a quelle legate alle attività dell’uomo.

Gli errori

È vero tutto ciò? Una chiara spiegazione degli errori in tutto questo viene riportata da chi di ricerca sul clima ne ha fatto un lavoro decennale. Si tratta di professori del Politecnico di Milano e dell’università di Milano, dell’Istituto nazionale di Astrofisica e altri enti di ricerca nel loro sito Climalteranti dove da anni si occupano di ricerca climatica.

Per avere idee chiare in merito è necessario essere a conoscenza di alcuni elementi fondamentali. Il primo riguarda la quantità di emissioni di CO2 prodotte dall’uomo. Stando al Global Carbon Budget il valore si aggira attorno a una media di 40 miliardi di tonnellate l’anno.

L’88 per cento è prodotto dall’uso dei combustibili fossili e il resto dall’uso del suolo e dalla deforestazione. Una parte di queste emissioni finisce in mare, ben il 25 per cento, il 35 per cento negli ecosistemi terrestri e “solo” il 45 per cento rimane in atmosfera. All’aumento delle emissioni, che negli ultimi 60 anni sono sempre cresciute con un rallentamento negli ultimi 10 anni, la percentuale di assorbimento da parte degli oceani ed ecosistemi terrestri è rimasta costante.

I ricercatori di Climalteranti sono ben consci che i dati possono avere delle incertezze, ma per alcuni le discrepanze sono minime. E le incertezze non significano incertezza nel definire quel che sta avvenendo. Giacomo Grassi, membro dell’Ipcc e principale autore del lavoro pubblicato su Climalteranti spiega che nella storia climatica del nostro pianeta è vero che in alcuni casi nel passato vi è stato dapprima un aumento della temperatura terrestre e successivamente un aumento dell’anidride carbonica in atmosfera, e ciò è avvenuto, ad esempio, in seguito alle variazioni dell’orbita terrestre che porta, secondo i cicli di Milanković, dapprima a un aumento della temperatura terrestre e conseguentemente a un rilascio da parte degli oceani di anidride carbonica disciolta in essi.

Ma vi sono stati casi dove è chiaro il contrario. Quando vi furono intensi rilasci di anidride carbonica da durature eruzioni vulcaniche l’aumento della temperatura fu conseguente a ciò. «Ma se ciò è avvenuto nel passato», spiega Grassi, «ciò non vuol dire che sia la spiegazione prevalente per quel che sta succedendo ora». E questo è un punto fondamentale.

Le emissioni antropiche

Un secondo elemento fondamentale riguarda le emissioni antropiche rispetto a quelle naturali. È vero che sono basse rispetto a quelle naturali, circa il 4-5 per cento, ma il lavoro di Koutsoyiannis e coloro che lo hanno ripreso dimenticano che ciò che è importante non è la quantità di materiale emesso, ma è quello che rimane in atmosfera.

Ebbene l’anidride carbonica emessa naturalmente viene del tutto riassorbita da altrettanti fenomeni naturali (fotosintesi terrestre e marina, scambio tra oceani e atmosfera e altro), ma rimane quel flusso netto del 4 per cento prodotto dall’uomo.

Ci sarebbero poi altre incongruenze nel lavoro di Koutsoyiannis, ma fermiamoci qui per chiederci come vanno interpretate le correlazioni tra aumento di temperatura e aumento, in ritardo rispetto al primo, della concentrazione atmosferica di CO2 trovate nello studio. «Semplicemente», spiega Grassi, «le anomalie interannuali della CO2 atmosferica sono controllate dalla variabilità climatica, mediata ad esempio da El Niño, il riscaldamento ciclico del Pacifico equatoriale che influenza il clima in tutto il mondo, con impatti sulla produttività degli ecosistemi terrestri e sulla frequenza degli incendi. Questo influenza la quantità netta di CO2 che viene assorbita dagli ecosistemi terrestri in un certo anno, e quindi la quantità di CO2 che rimane in atmosfera.

È una novità? Proprio no: l’Ipcc l’ha scritto circa 23 anni fa, ed altri studi successivi hanno approfondito la questione». I dati sono molto chiari: è l’uso dei combustibili fossili ad aver causato l’aumento della CO2 atmosferica negli ultimi decenni, raggiungendo livelli mai visti in almeno 800mila anni.

E c’è un dato da sottolineare: se in questi 800mila anni l’aumento per secolo si è sempre aggirato attorno a un massimo di cinque parti per milione, nell’ultimo secolo l’aumento dell’anidride carbonica è stato di oltre 140 parti per milione, il che è tutto dire.

Un mistero risolto in Antartide

Nella crosta di ghiaccio invernale sul mare di Weddell antartico, vicino a un picco sommerso chiamato Maud Rise, a volte si apre un enorme buco, esponendo le acque scure e fredde sottostanti. Individuato per la prima volta nel 1974, non appare ogni anno, portando gli scienziati a interrogarsi sulle condizioni specifiche necessarie per produrlo.

Utilizzando una combinazione di immagini satellitari, strumenti autonomi galleggianti, foche che indossano strumenti di rilevamento dati, le risposte sono finalmente arrivate e coinvolgono strati d’acqua trascinati dal vento per creare quella che è nota come “spirale di Ekman”.

«Il trasporto Ekman», afferma l’oceanografo Alberto Naveira Garabato dell’università di Southampton nel Regno Unito, «era l’ingrediente essenziale mancante necessario per chiudere il cerchio sulle ipotesi avanzate nel corso degli anni». Per capire cos’è la spirale di Ekman facciamo un passo indietro. Buchi nel ghiaccio marino antartico, noti come polynyas, non sono così rari, ma si formano vicino alla riva e sono usati come finestre da mammiferi marini come foche e balene per riprendere fiato. Più al largo invece, sono molto meno comuni. In effetti, il buco ricorrente noto come Maud Rise polynya ha fatto grattare la testa agli scienziati da quando è stato individuato per la prima volta in un’immagine satellitare di mezzo secolo fa. Nel 1974, il buco gigante aveva dimensioni di circa due terzi la superficie dell’Italia. Ritornò nel 1975 e nel 1976, anche se in seguito si formò solo brevemente e debolmente, al punto che gli scienziati sospettarono che potesse scomparire per sempre. Ma poi, nel 2016 e nel 2017, quel buco è tornato con dimensioni notevoli: circa un terzo dell’Italia. Fu così che gli scienziati si misero al lavoro per cercare una soluzione. Ed ecco il quadro: uno dei fattori è stata una corrente circolare attorno al mare di Weddell, particolarmente forte nel 2016 e nel 2017, che ha provocato una risalita di acqua calda, particolarmente salata. «Questo sollevamento aiuta a spiegare come il ghiaccio marino si sia potuto fondere», spiega l’oceanografo Fabien Roquet dell’università di Göteborg in Svezia. «Ma la fusione del ghiaccio marino porta ad un rinfrescamento dell’acqua superficiale, che a sua volta dovrebbe fermare la miscelazione. Quindi, affinché la polynya possa persistere, deve verificarsi un altro processo. Ci deve essere un ulteriore apporto di sale da qualche parte».

Il sale può abbassare il punto di congelamento dell’acqua, quindi se l’acqua nella polynya è particolarmente salina, ciò potrebbe spiegare la persistenza del buco. Da dove può arrivare quel sale marino richiesto? La risposta dice che vortici turbolenti generati mentre la corrente di Weddell scorre intorno a Maud Rise trasportano il sale fino alla cima della montagna sottomarina.

Da lì subentra la “Spirale di Ekman”. Quando il vento soffia sulla superficie dell’oceano, creando resistenza l’acqua non viene solo trascinata, ma anche deviata lateralmente come la scia di una barca, provocando una spirale nell’acqua, come una vite. Quando lo strato superiore d’acqua si allontana con il vento, l’acqua risale dal basso per sostituirlo.

Nel caso della polynya di Maud Rise, quest’acqua che risale porta con sé l’accumulo del sale che si aggira intorno a Maud Rise, impedendo al buco di gelare. Ora, poiché i climatologi prevedono che i venti invernali antartici diventeranno più forti e più frequenti a causa dei cambiamenti climatici in atto, ciò potrebbe portare alla formazione di enormi polynyas più frequenti negli anni a venire.

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