«Per descrivere il mondo del collasso climatico, si ricorre spesso alla mitologia antica e alla fantascienza: non esiste un’epica del Necrocene, non abbiamo neppure le parole per narrare questo controsenso esistenziale. Per orientarci spiritualmente, mentre la nostra specie avanza sull’orlo del burrone dell’estinzione, si attinge a dottrine antichissime o alla poesia — si cercano saperi che siano superiori alla logica del tempo o lontani dalle favole occidentali intrise di ideologia. Quella che abitiamo sembra infatti una realtà inenarrabile. Ma pure quello che ci succede interiormente sembra indicibile, anche se qualcuno prova a dargli un nome (...) Siamo tuttə coinvoltə in un faticoso tentativo di costruzione di senso. Anche i negazionisti climatici lo sono: chi non lo fa per interesse capitalista, reagisce alla paura attraverso l’evitamento. E lo capisco, perché stare a contatto col reale può deprimere, far impazzire di rabbia, trascinare nel buco nero della disperazione». Sono parole di Gabriella Sesti Osséo, co-fondatrice di Fantapolitica!, ricercatrice sui movimenti per il clima e cercatrice di parole giuste.

Parla della Romagna, parla di te, me, di tutti noi, di qualcosa che stiamo vivendo in questi giorni strani e dolorosi, di chi ha spalato, di chi ha perso, di chi abbiamo perso, di cosa stiamo perdendo. «In questi giorni sento di appartenere a una comunità epistemica che davanti a questi eventi si ritrova, si stringe, sente il peso doloroso dell’avere ragione e non giudica l’emotività altrui».

Siamo alla ricerca di spiegazioni (come è potuto succedere?), siamo alla ricerca di soluzioni (come ci possiamo proteggere?), ma siamo anche alla ricerca di un senso: cos’è tutto questo? Come ci fa sentire, come ci cambia, l’acqua che sale, invade, divora? Questo è il numero 124 di Areale, dolorante ma ancora nel mondo, insieme.

Il fango e la rabbia

Oliver Weiken/picture-alliance/dpa/AP Images

Lunedì uscirà su Domani un mio articolo che prova a spiegare le dinamiche, la fisica e la politica di questa alluvione e di queste frane, cosa abbiamo sbagliato, cosa non stiamo ancora capendo, in questi giorni sto provando a mettere ordine nel disordine.

Dobbiamo uscire dalla retorica della messa in sicurezza, perché questo non sarà mai più un mondo climaticamente sicuro. Però possiamo ridurre l’esposizione al rischio, un pezzo alla volta, dalle montagne fino al mare.

«Dobbiamo riprogettarlo, questo territorio, non semplicemente ricostruirlo», mi ha detto Alessandro Liverani, un operatore forestale di Modigliana, che da giorni ha smesso di dormire e può solo lavorare, perché lì da lui è franato tutto il bosco, per incuria e oblio, il mondo che ci cade addosso. Mentre parlavamo al telefono, con la linea che andava e veniva, mi ha fatto pensare a quella canzone dei R.E.M., Fall On Me, che è quasi una preghiera ecologista sul chiedere al cielo di non caderci addosso.

Oggi dobbiamo seppellire i morti e riparare i viventi, e più di tutto in questi giorni contano il fango e la rabbia. Per usare le due parole-mondo di Andri Snær Magnason (e di Gabriella) ci sarà il tempo, ma ora c’è soprattutto l’acqua. Penso alla fatica fisica e mentale di chi ha spalato. Abbiamo visto immagini, letto interviste, affrontato anche la retorica sugli angeli del fango, che è allo stesso tempo suggestiva e disgustosa, perché trascura il peso e il prezzo che questo dolore e questa fatica stanno avendo sulle persone in Romagna.

«In questi giorni gli attivisti per il clima e chi i cambiamenti climatici li ha negati per anni si sono trovati fianco a fianco a combattere e ripulire, tutti uguali, dallo stesso lato della tempesta, a provare a salvare quello che si può salvare». Me lo ha detto Giacomo Zattini, che appartiene alla prima categoria, è portavoce nazionale di Fridays for Future. Uno di quelli a cui il presidente del Senato Ignazio La Russa ha detto di andare a spalare invece di fare polemiche, quando loro stavano già spalando mentre La Russa faceva polemiche.

«Spalare non ci toglie la capacità di pensare, e di ricordarci le responsabilità, e gli interessi. Anzi, tante persone stanno facendo connessioni nuove, qui, ed è triste che sia servita questa tragedia». 

Spalare e pensare, spalare e sapere, spalare e ricordare da dove viene tutto questo. Giacomo è di Meldola, un paesino di campagna intorno a Forlì, per giorni è stato un profugo climatico dentro casa sua, isolata, senza acqua, connessione, telefono, luce. Teoria e pratica della crisi.

«Mi chiedi come mi sento. Meglio, mi sento meglio di qualche giorno fa», perché anche il dolore e la paura vanno per ondate di piena, un recipiente che, a un certo punto, se ti sei tenuto vivo, inizia a calare. E sta meglio, oggi, anche per un altro motivo, che ha a che fare con la cura in tempo di crisi, in tempo di questa crisi.

«Il Covid ci aveva distanziato, allontanato dagli altri, dai vicini, dagli amici, dagli estranei. Invece questa alluvione ci ha avvicinato, ci ha incentivato a venirci incontro». Nel 2020 il corpo degli altri era una minaccia, poteva ucciderti, oggi il corpo di un altro ti può salvare la vita, portare l’acqua, abbracciarti, liberarti la porta di casa. Senza comunità non ci sarà mai adattamento. E poi, l’ultima cosa che mi ha detto prima di salutarmi: «La rabbia. In questi giorni provo tantissima rabbia, per tutto quello che sto sentendo, per politici, esponenti di governo e delle istituzioni che ancora negano scienza e realtà. Diventeremo più intolleranti, l’asticella del conflitto si alzerà, è inevitabile. Perché in questi giorni ogni forma di negazionismo politico e istituzionale è una forma di violenza». Non ho altro da dire.

Presentare il conto

Le aziende più grandi nel settore dei combustibili fossili ci devono 209 miliardi di dollari all’anno in risarcimenti climatici. Ed è una stima conservativa. È il frutto di una ricerca pubblicata su One Earth, alla quale ha partecipato un docente dell’Università Bicocca, Marco Grasso, uno dei massimi esperti di giustizia climatica in Italia.

Lo studio ha quantificato i danni che saranno causati dai 21 grandi inquinatori climatici del mondo (BP, Shell, ExxonMobil, Total, Saudi Aramco, Chevron) tra il 2025 e il 2050: 5,400 miliardi di dollari in siccità, incendi, fusione dei ghiacci, innalzamento del livello del mare, eventi estremi. È la prima volta che il danno finanziario dell’attività fossile viene quantificato in modo così esatto.

Il contesto di questo studio è il dibattito politico su chi dovrà mettere i soldi nel fondo danni e perdite, creato alla Cop27 in Egitto, che i paesi Onu hanno due anni per rendere operativo (saranno importanti anche i negoziati intermedi di giugno a Bonn). Una delle ipotesi porta proprio alle aziende fossili. 

La metodologia scelta dallo studio per altro non prende in considerazione le vite perse, il collasso della biodiversità, la perdita di culture, l’abbassamento del benessere, e si basa solo su tutto quello che viene fotografato nel PIL di paesi e comunità colpite. Quindi è una stima molto prudente. Però è un modo per legare in modo diretto dal punto di vista finanziario ed economico quello che le scienze fisiche sanno già da anni: a determinate emissioni di gas serra corrispondono determinati eventi estremi. Questi eventi hanno un impatto sul PIL, chi è responsabile di queste emissioni è responsabile anche di queste perdite. Questa è la logica.

Queste riparazioni dei danni causati dalle 21 major fossili sarebbero comunque inferiori ai loro profitti, se prendiamo il 2022 (anno di crisi quasi per tutti, tranne che per chi vendeva energia). Secondo la ricerca, Saudi Aramco dovrebbe per esempio pagare 43 miliardi di dollari all’anno per i danni causati dalle sue emissioni: è un quarto dei profitti del 2022. ExxonMobil dovrebbe pagare 18 miliardi di dollari, contro 56 miliardi di dollari di profitti nel 2022. E così via.

Intanto, agli alluvionati della Romagna potrebbe interessare, per contesto culturale e auto-motivazione, la strategia legale scelta da una piccola città del New Jersey, Stati Uniti, Hoboken, famosa soprattutto perché qui si è tenuta la prima partita di baseball della storia. La geografia di Hoboken la rende particolarmente vulnerabile alle alluvioni, e questo ha richiesto degli altissimi costi (nell’ordine di centinaia di milioni di dollari) per mettere in sicurezza le infrastrutture. Le istituzioni cittadine hanno deciso di fare causa a Exxon, Chevron e altre grandi aziende petrolifere Usa per far pagare loro queste ricostruzioni, portandole in tribunale tre anni fa.

Sembrava un contenzioso climatico come tanti (negli Usa ce ne sono tantissimi), ma gli avvocati di Hoboken hanno scelto una strategia diversa. Non contestano più solo la violazione delle norme a tutela dei consumatori (strada standard delle climate litigation Usa) ma hanno deciso di tirare in ballo una legge chiamata RICO, cioè Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act. Una legge anti-mafia. Hanno accusato le major del petrolio di essersi comportate come un’associazione a delinquere di stampo mafioso, per usare una terminologia italiana. Perché conoscevano i danni che avrebbero causato, e hanno fatto cartello per nasconderli al pubblico e lasciare indisturbato lo status quo, con la creazione del Group Climate Coalition nel 1989 da parte dell’American Petroleum Institute.

Il RICO è stato già usato in passato, e con successo, contro Philip Morris e durante la crisi degli oppiacei. È la seconda contestazione di questo tipo alle aziende del petrolio fatta negli Usa, la prima veniva da Porto Rico, territorio devastato dagli uragani Irma e Maria. In quel caso le città portoricane chiedevano il risarcimento dei danni e non il costo delle infrastrutture.

«Ci hanno paradossalmente reso le cose facili», ha detto a Grist Melissa Sims, avvocata della causa di Porto Rico, «perché nessuna altra organizzazione mafiosa ha messo nero su bianco un piano di battaglia così dettagliato su come avrebbero ingannato il pubblico».

Gli incubi del polpo

AP

Prima di arrivare verso la fine, tre telegrammi che sono altrettanti esercizi di stupore e attenzione, perché ne abbiamo bisogno, soprattutto questa settimana. I polpi, forse, fanno gli incubi. O, almeno, uno specifico polpo, che si chiama Costello, e che è stato osservato in una vasca della Rockefeller University di New York (e sì, se hai visto Arrival, si chiama Costello per quel motivo lì) (e, se non hai visto Arrival, io penso che dovresti farlo, subito, lì c’è qualcosa che ti serve, sul linguaggio, la comunicazione, la pace e tutto il resto).

Lo hanno visto cambiare colori durante il sonno, e questo è tipico e comune. Però poi Costello ha iniziato a scivolare lungo il vetro della vasca, con i tentacoli avvolti intorno al corpo. Poi a ruotare «come un ciclone». Poi ha spruzzato inchiostro nella vasca. Poi si è aggrappato a un tubo, «come se volesse ucciderlo, sembrava la scena di un combattimento». Tutto questo mentre dormiva. Come quando sogni qualcosa, qualcosa di terribile, e il tuo corpo segue quel sogno.

Che i polpi possano sognare è un’ipotesi suggestiva, non del tutto nuova, ancora non provata. Non era mai stato osservato un incubo. Potrebbero esserci diverse altre spiegazioni neurologiche, ma una ricerca sul fatto che Costello abbia fatto un vero incubo è stata appena pubblicata e aperta a peer review.

Intanto, le orche hanno iniziato a rispondere, e a combattere. I fatti: da maggio 2020 i pod di orche hanno attaccato e affondato tre imbarcazioni nel Mediterraneo, l’ultima di recente nello Stretto di Gibilterra, in quelli che sembrano attacchi coordinati, volontari, frutto di un comportamento appreso.

Ora, le orche sono animali straordinari: sappiamo che sviluppano comportamenti «idiosincratici e non per forza adattivi». Gruppi che portano salmoni morti sopra le teste, altri che imparano a imitare la voce dei leoni marini, altri che hanno imparato a rigurgitare il pesce come esca per i gabbiani (che gli piacciono più dei pesci). E ora, attraverso un meccanismo sociale di apprendimento, stanno trasmettendo questo comportamento: le barche si possono attaccare, ecco come fare. La cosa sembra avere avuto origine da un singolo incontro traumatico tra un’imbarcazione e un’orca. È iniziata la rivolta? Forse no, ma è una storia affascinante.

Infine, il Museo di Storia naturale di Londra ha effettuato la prima catalogazione sistematica di tutti gli animali che abbiamo scoperto nella Clarion Clipperton Zone, un pezzo di fondale del Pacifico dove la vita si è evoluta indisturbata, al freddo e al buio, per milioni di anni, e del quale oggi si parla molto perché rischia di essere la prossima preda dell’industria mineraria globale. Ma non ci sono solo nickel, manganese, cobalto da estrarre (se non vincerà la posizione che vuole mettere una moratoria), là sotto c’è anche vita, vita ignota. Di 5mila animali trovati dai ricercatori, solo 400 erano già noti alla scienza. Gli altri sono queste creature che sembrano aliene e invece vengono proprio dal nostro mondo.

Immaginare la crisi

Da un po’ di tempo mi sono accorto che quando provo a spiegare (e spiegarmi) qualcosa sulla crisi climatica, la mia mente immagina quel concetto con i disegni di un’illustratrice che si chiama Alessia Iotti, in arte Alterales. Abbiamo iniziato questo numero di Areale parlando di crisi del senso e dell’immaginario, lo chiudiamo con il fatto che pezzi di immaginario nuovo esistono già, e uno di questi è la matita di Alterales.

Te lo scrivo perché nel frattempo quella matita e quei disegni sono diventati un libro, La crisi climatica esiste, non è un unicorno, pubblicato da Mondadori. Il libro di Alterales è allo stesso tempo una costruzione di mondo, una mediazione culturale, un atto di divulgazione e attivismo a mezzo fumetto. Se hai voglia di capire chi sono davvero queste ragazze e questi ragazzi, compralo. La fascia di età consigliata da Mondadori è 10-14 anni, ma secondo me anche se aggiungi qualche decennio non sbagli. A una persona molto giovane lo regali per fargli coraggio e dargli strumenti facili e belli per capire le cose, invece se hai qualche anno in più è utile per capire i desideri, le paure, l’entusiasmo di un’intera generazione.

Siamo arrivati alla fine, è stato un numero lungo, lo so, ma la settimana è stata quella che è stata. Se vuoi scrivermi, come sempre, puoi farlo a ferdinando.cotugno@gmail.com. Per comunicare con Domani, invece, lettori@editorialedomani.it

Buon sabato, e coraggio.

Ferdinando Cotugno

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