Alcuni ricercatori lo sostenevano da tempo, ma non si avevano ancora prove certe. Ora una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Geophysical Research Atmospheres da un gruppo di esperti del clima, svedesi e nigeriani, dimostra che il riscaldamento dell’atmosfera durante i mesi estivi in ​​Europa è stato molto più elevato della media globale. 

L’Europa è sempre più secca

Les Brenets, Svizzera (Anthony Anex/Keystone via AP)

La ricadute di ciò hanno portato a un clima sul nostro continente, e soprattutto sull’Europa meridionale, più secco rispetto al passato e al resto del pianeta. Tra le conseguenze che si sono avute vanno annoverate ondate di caldo peggiori e un aumento del rischio di incendi. Lo studio afferma che le misurazioni sopra gran parte dell’Europa rivelano che, durante i mesi estivi degli ultimi 40 anni, si è avuto un riscaldamento dell’atmosfera superiore ai 2° C rispetto al periodo preindustriale, un valore molto alto che si sperava di non dover mai toccare.

Paul Glantz, del Dipartimento di Scienze ambientali dell’università di Stoccolma e responsabile della ricerca ha detto: «Si può affermare che ormai il cambiamento climatico sull’Europa è da considerarsi grave, in quanto porta, tra le altre cose, ondate di caldo più frequenti e più intense. E tutto ciò aumenta il rischio di incendi, come quelli che si sono verificati sull’Europa meridionale nell’estate del 2022».

Nello studio si legge che «il riscaldamento è amplificato a causa del suolo più secco e della diminuzione dell’evaporazione che ha determinato una minore quantità di nubi su gran parte dell’Europa». Glantz sottolinea: «Quel che si osserva sull’Europa meridionale è in linea con quanto previsto dall’Ipcc, ovvero che un maggiore impatto umano sull’effetto serra porterebbe a zone aride sulla Terra a diventare ancora più aride». Tutto questo fa pensare che il limite di 1,5°C da non oltrepassare per evitare serie conseguenze alla vita di noi tutti è ormai superato e la temperatura è destinata a crescere fin a toccare i 2°C in più entro la fine del secolo. 

Cercare l’energia “infinita” sottoterra

Una centrale geotermica in Islanda (Mikel Bilbao / VWPics)

È risaputo che ad alcune decine di chilometri sotto la superficie terrestre esiste così tanto calore che se si potesse sfruttare darebbe energia all’umanità intera, sostituendosi a tutte le forme di produzione di energia attuali. Il vero problema è riuscire a perforare la roccia terrestre a profondità notevoli. Ad oggi il pozzo più profondo mai realizzato nella crosta terrestre è arrivato a circa 13 chilometri di profondità. L’impresa venne realizzata negli anni Settanta a Kola, una regione dell’ex Unione Sovietica, ma le difficoltà incontrate furono tali e tante che nessuno più tentò di battere quel record.

Ma oggi Matt Houde, cofondatore della Quaise Energy, una startup del Massachusetts, sostiene di aver messo a punto una speciale piattaforma di perforazione in grado di vaporizzare letteralmente la roccia e superare così di gran lunga quelle profondità che sembravano insuperabili. Spiega Houde: «Il contenuto energetico totale del calore immagazzinato nel sottosuolo supera la nostra domanda annuale di energia come pianeta di un fattore di un miliardo. Quindi attingere a una frazione di questa energia è più che sufficiente per soddisfare il nostro fabbisogno energetico per il prossimo futuro».

Quaise Energy è nata dal MIT Plasma Science and Fusion Center nel 2018 e la Società ha già ottenuto un finanziamento di 52 milioni di dollari per realizzare il primo impianto di perforazione.  La tecnica di trivellazione è stata sviluppata al MIT negli ultimi 15 anni ed è stata dimostrata in laboratorio praticando fori in diverse rocce che si ritroveranno a varie profondità. Il sistema funziona utilizzando la perforazione rotativa convenzionale per scendere fino a tre chilometri di profondità. Quindi si passa alla piattaforma di perforazione appositamente progettata, la quale genera onde millimetriche ad alta potenza (vicine alle microonde nello spettro elettromagnetico). Per realizzare ciò, Quaise Energy utilizza un girotrone, ossia un tubo a vuoto, il quale con un meccanismo molto sofisticato, genera le onde millimetriche ad altissima energia. Queste onde, insieme a gas ad alta pressione, vengono iniettate attraverso il tubo fino in fondo al foro che si va producendo e ciò permette di vaporizzare la roccia. Il materiale “incenerito” viene trasportato in superficie dal gas per essere rimosso. La vaporizzazione delle rocce a profondità estreme consente a Quaise Energy di raggiungere temperature fino a 500 °C.  Una volta realizzati i pozzi basterebbe iniettare acqua per averla in superficie sotto forma di vapore, il quale farebbe funzionare le turbine come in tutte le centrali elettriche. Poiché il calore all’interno della Terra è praticamente infinito a scala umana e presente ovunque, si potrebbe ottenere energia pulita senza alcuna dipendenza da altri paesi e senza sosta, in qualunque ora del giorno, per 365 giorni all’anno. Il primo pozzo di questo genere dovrebbe vedere la luce nel 2024, anche se la società non ha detto dove. Un altro elemento non rilasciato dalla Quaise Energy è quanto verrà a costare un progetto di questo tipo.

L’eruzione più potente da cent’anni

AP

Il 14 gennaio 2022, il vulcano sottomarino Hunga-Tonga Hunga-Ha’apai ha dato vita alla più potente esplosione vulcanica registrata sulla Terra in oltre 100 anni, cioè da quando i geologi hanno iniziato a catalogare eventi simili con la strumentazione moderna. L’Istituto nazionale neozelandese per lo studio degli oceani e dell’atmosfera (Niwa) ha realizzato una ricerca approfondita su ciò che è realmente avvenuto a livello globale e i risultati sono impressionanti.

L’eruzione ha divelto il fondale marino fino ad una distanza di 80 chilometri dal vulcano; ha spostato dieci milioni di chilometri cubi di materiale, l’equivalente di 2,6 milioni di piscine olimpioniche; la cenere e il vapore emessi hanno raggiunto i 40 chilometri di quota, entrando così nella mesosfera per rimanervi per alcuni mesi. Ciò ha trasformato un fondale marino ricco di vita in un deserto che dal vulcano si estende per almeno 80 chilometri di raggio. Nonostante la violenza dell’eruzione il fianco del vulcano è rimasto sorprendentemente intatto, mentre la caldera si è sprofondata di circa 700 metri rispetto a prima dell’eruzione.

Il più vicino buco nero della Terra

Stocktrek Images

L’idea che un buco nero possa essere così vicino alla Terra da poterla prima o poi inghiottire può sembrare una trama da film fantascientifico, ma in realtà non lo è. Sono tantissimi infatti, i buchi neri che attirano a sé materiale da un’altra stella e, conseguentemente, se queste dovessero aver avuto dei pianeti per lor sarebbe stata una triste fine. Per fortuna non è il caso del Sole, il quale non ha buchi neri nelle vicinanze. Voler sapere dove si trova il più vicino tuttavia, è fondamentale per sapere se dobbiamo preoccuparci o meno anche in un lontano futuro…

Ebbene se il buco nero appena scoperto è davvero quello più prossimo a noi non dobbiamo assolutamente avere timore: si trova infatti, a circa 1.600 anni luce dalla Terra. Vuol dire che viaggiando alla velocità di 300mila chilometri al secondo ci si impiega ben 1600 anni per arrivarci. Il buco nero è di massa stellare, tant’è che ha una massa di circa dieci volte quella del Sole e attorno ad esso gli orbita una stella proprio simile alla nostra, nella costellazione dell’Ofiuco.

La scoperta è stata pubblicata con un articolo apparso sul Monthy Notices of the Royal Astronomical Society. Al buco nero è stata data la sigla Gaia BH1, in quanto inizialmente osservato dal telescopio spaziale Gaia. Le ricerche poi, sono continuate grazie alle osservazioni eseguite con il telescopio Gemini North alle Hawaii. La scoperta si è resa possibile grazie alle osservazioni spettroscopiche del moto della compagna del buco nero, in altre parole osservando il comportamento della luce emessa dalla stella che orbita attorno al buco nero a una distanza pari a quella a cui il nostro pianeta orbita attorno al Sole. Questo buco nero sembra essere quiescente e quindi in nessun modo pericoloso. Al contrario il buco nero che precedentemente deteneva il record, che si trova circa tre volte più lontano dalla Terra rispetto a Gaia BH1, è attivo ed emette grandi quantità di radiazioni X che sono il frutto del consumo di materiale che attrae dalla stella compagna. Per questo è stato anche più semplice da individuare.

La ricerca del buco nero più vicino alla Terra è una sorta di sfida tra alcuni astronomi e non sono mancate false illusione. Circa due anni fa, ad esempio, l’Eso (European Southen Observatory) aveva emesso un comunicato stampa che rivendicava la scoperta del buco nero stellare più vicino, chiamato HR 6819 alla Terra. Il buco nero, anch’esso quiescente, sembrava far parte di un sistema triplo di stelle che dista solo mille anni luce dalla Terra. Ma dopo poco, Kareem el-Badry, astrofisico presso il Center for Astrophysics Harvard & Smithsonian e il Max Planck Institute for Astronomy, e primo autore dell’articolo che descrive la scoperta di Gaia BH1, smentiva l’esistenza del buco nero, smentita che è poi stata dimostrata anche da altri astronomi.

Gaia BH1, invece, sembra non ammettere errori di valutazione, anche se per alcuni esiste un problema: la stella che avrebbe dato origine al buco nero dovrebbe essere vissuta solo pochi milioni di anni, in quanto era una stella molto massiccia, con una massa di circa 20 volte quella del Sole. Ebbene quando esplose avrebbe dovuto inghiottire la stella che le orbita attorno che nel momento in cui esplose non era ancora una vera e propria stella in grado di “bruciare” idrogeno. Ma ciò non è avvenuto. Questo mistero deve ancora essere spiegato perché il tutto non concorda con i modelli accettati universalmente della nascita e dell’evoluzione delle stelle binarie.

© Riproduzione riservata